I giorni trascorsi

Ci provo, sto ascoltando I giorni di Einaudi. Indosso una felpa nera col cappuccio, e la serranda è quasi del tutto giù a irrorare oscurità. Sto su un letto con delle lenzuola allegre coperte da una trapunta nera. Gambe intrecciate e il tempo che scalpita.
Vado…

Le vene del collo erano evidenti, gonfie di sangue. Si poteva quasi scorgere il flusso ondulatorio del sangue che ad ogni pompata diventava più veloce. La mascella serrata, le labbra socchiuse lasciavano intravedere i denti chiusi con forza.
I pugni anch’essi stretti, e ciò faceva emergere le arterie, le vene e i capillari. Quei capillari che a uno a uno scoppiavano negli occhi, colorandoli di un rosso vendetta.
Ogni muscolo al proprio posto, ogni articolazione pronta al colpo e ogni tendine teso. Il primo fendente fu micidiale, tutto fu perfetto.
Non così perfetto da non essere migliorabile. Il secondo e poi il terzo, e poi uno dopo l’altro. Come se non dovesse esserci mai fine. Come se un ago infilzato tra la nuca e il cervelletto ricordasse istante per istante tutto il dolore provato. Giù sul corpo inerme, ogni colpo sembrava essere migliore del precedente. Niente ansia e niente paura. Quella macchina perfetta non lasciava fuggire una lacrima, una goccia di sudore. Niente che potesse far pensare a un sentimento inadatto alla circostanza: pietà e commiserazione erano fuggite dal suo cuore.
E quando il cuore dovette arrendersi a pompare a quei ritmi forsennati, quando la macchina perfetta accennò a cedere alla stanchezza si alzò. Si alzò e aprì i pugni, sciolse la tensione fino ad allora invisibile. E con la forza che non lo aveva mai tradito nei momenti opportuni, senza dar libertà ai muscoli del viso, incise dei solchi sul suo volto. Incise dei profondi solchi con le unghie spezzate, con le unghie familiari a quel gesto apparentemente inspiegabile. Ne uscì del sangue, e l’aria frizzante lo pietrificò.

Lo ricordo ancora.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.