Il rispetto

Oggi ero all’università e stavo seguendo una lezione di Logica e Algebra. Il venerdì solitamente è una giornata pesante, e così è stata anche quest’oggi sebbene non abbia dovuto subire la professionalità del docente di Fondamenti di Automatica per via di un suo improrogabile impegno (gli abbiamo rubato il cane, sarà negli studi di registrazione di Chi l’ha visto?).
Pensavo a quanto sia diversa la vita universitaria dalla precedente. E dalla successiva, insomma la vita universitaria è un’altra vita. Come se ognuno di noi nel corso della propria vita debba per un attimo – che dura dai 3 a tot anni – fare una esperienza ultrasensoriale, e tentare di conquistarsi delle nozioni che poi non gli serviranno a quasi una minchia. Però ha imparato la fatica, il sacrificio e la non previdibilità degli eventi di una vita da grande.
Dopo aver riflettuto su tutto questo, mentre la prof spiegava qualcosa che poi capirò grazie a una delle mie tante cognate (nome in codice: Sara), mi giungeva alla mente un ricordo alquanto confuso di quand’ero giusto alle elementari. O il quarto o il quinto anno del primo corso di studi.
In classe era arrivato un nuovo compagno, Salvatore è il suo nome. Questo ragazzo aveva i genitori separati, la madre alcolizzata e del padre non s’avevano notizie confortanti. Condivideva la mamma con altri quattro o cinque fratelli, anche su questo le notizie erano discordanti; diciamo che la mamma durante l’estasi indotta dall’alcool si dilettava a restare prena, introducendo preoccupanti dosi di ingiustizia in un mondo di per sè non troppo virtuoso.
Erano gli anni novanta, eravamo nella punta sud dell’Italia. Di bullismo non se ne parlava ai telegiornali, le maestre spiegavano ancora con l’abaco e i regoli e i bimbetti di dieci anni sapevano già cos’era il rispetto.
Quel ragazzo non era capace di mantenerselo stretto, il rispetto. E fu così che in classe era cantata di continuo una canzoncina idiota “Salvatore Di Raimondo, etta un pirito (fa uno flatulenza) e casca il mondo”. Il suo collo era di continuo arrossato dalle nostre scucciatine, termine dialettale che indica quella violenta manata assestata sotto la nuca. Emarginato già da ragazzo e senza amici, le maestre si preoccupavano per quanto potevano di lui. Avevamo ascoltato diversi discorsi moraleggianti dai professori, dal direttore e da chi si prestava a questo compito da parroco di campagna. Ma noi non avevamo ancora i sensi di colpa, non conoscevamo la parola bullismo e il male c’era nascosto dai nostri genitori. Eravamo con purezza malvagi, candidamente spietati.
Un giorno quel ragazzo osò conquistarsi un pò di rispetto, o forse volle solamente reagire ai nostri soprusi: rispose a una mia scucciatina con un calcio nel mio zaino. Il MIO zaino. La cosa andava chiarita, ignorare la sua provocazione sarebbe stato un punto in meno al mio rispetto agli occhi dell’intera classe.
Con gli occhi pieni d’ira, essendo incapace di provocare del male fisico spontaneamente, mi diressi verso il suo zaino e gli diedi il più forte calcio che le mie gambe potessero assestare. Esplose la bottiglietta d’acqua che aveva nella tasca e un cachi, ch’era la sua merenda. Me ne tornai al posto, pensando che adesso tutto era ritornato al suo ruolo originario.
Io sapevo che era una cosa sbagliata. Non la mia reazione, quello era giusto. Di sbagliato c’era trattarlo in quel modo, conoscevo i suoi drammi ed era chiaro a noi che non la stavamo di certo aiutando. Ma il mondo in quella mia classe era questo: lui non aveva rispetto, non meritava di giocare con noi, era divertente prenderlo in giro e non poteva ribellarsi. E i grandi erano impotenti nelle nostre regole sociali, apprese chissà da chi chissà dove.

Oggi a lezione mi è sopraggiunto un altro ricordo, relativo agli anne delle medie. Si la lezione era davvero noiosa questo pomeriggio, e poi solitamente non tento di interrompere questi vecchi ricordi dei miei anni da giovane.
Un mio compagno, Federico, durante una lezione di geografia si trovava in disaccordo con me relativamente a una domanda della professoressa. Federico aveva tanto potere in classe: era dotato di una muscolatura non indifferente per quella età, e sapeva come farsi valere nei dialoghi fra ragazzini. Il clima s’era un pò acceso, io avevo ragione perchè la geografia mi piaceva (si, è un nesso evidente). Lui mi insultò, e insultò mia madre: almeno così mi era sembrato di sentire. A ripensarci rido, forse mi ero solo stancato di lui, mi stava antipatico. Mi alzai, la sedia sbilanciata dallo zaino cadde, il banco fece rumore urtando contro la sedia del mio compagno seduto avanti. Federico non s’accorse di tutti questi dettagli, era già scagliato contro la porta con le mie mani che, avvolte intorno al suo collo, lo immobilizzavano. Scoppiò a piangere, e io tornai al mio posto mentre la professoressa si preoccupava se Federico respirava ancora normalmente. Il mio compagno di banco mi fece i complimenti, e anche il ragazzo ch’era seduto davanti a me a cui chiesi scusa per via del banco che lo aveva urtato. La professoressa mi chiesi il perchè delle mie azioni e io gliele dissi. Mi fece una nota sul registro, ma tutti il giorno seguente gli domandavano, burlandosi di lui, chi fosse adesso il più forte, perchè non aveva reagito.

Salvatore adesso quando ci vediamo mi saluta e io saluto lui. Oramai lo considero mio pari, anche se mi è rimasto in testa quel motivetto.
Con Federico, invece, abbiamo dimenticato quell’episodio già qualche giorno dopo. L’ultima volta che l’ho visto è stata quest’estate, è sempre parecchio muscoloso ma non ho più timore di lui.

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