Latin Lover – parte 1 (torna l’altro)

La prima volta che ho avuto conferma del fatto che mi piacciono le donne credo sia stata all’asilo. Mi piaceva una, cioè io le piacevo: le ragazze – si sa – sono sempre qualche passo avanti agli uomini. Io ancora stavo cercando di costruirmi una casa sull’albero, volevo fare le sgommate col mio trattore di plastica e cercavo di capire cosa ci fosse di così interessante sotto un automobile che giustificasse tutto quel tempo trascorso da mio padre lassotto. Insomma questa mi sa che un giorno mi disse ciao quando stava andando via, e io pensai che forse non sarebbe stata male come mia ragazza. Poi il giorno dopo giocò con me ad acchiapparello, e quello era un preciso segnale – almeno così pensavo – del fatto che io le piacessi da morire. Così mi fidanzai con lei, ma poi, dopo qualche giorno, me ne scordai. Allora sì che ero allegro e spensierato, hakuna matata!
Poi alle medie voci di corridoio mi dissero che quella stessa ragazza si stava rifacendo avanti, ma non mi ha mai detto ciao nè ha iniziato a scappare pianificando che io la rincorressi.
Poi in primina arrivò Federica. Non ricordo il cognome, nè com’era fatta. Piaceva anche a Federico, ma io ero in vantaggio. Su tutti gli altri maschi. Già questo bastava, quella doveva essere mia. Non credo sia una questione di ormoni, passavo ancora il mio tempo sugli alberi e sotto le macchine. E’ sopravvivenza, affermazione di sè nel branco. Diventammo fidanzati: e questa volta lo sapeva anche lei. Fu veramente bello. Il Pensare di essere fidanzati anche a cinque anni distribuisce nel sangue una immensa carica di ottimismo e voglia di vivere. L’episodio che ho stampato nella memoria è una gran sudata, nella pizzeria dello zio. Era il compleanno di qualcuno, forse proprio il suo. Non ricordo esattamente il perchè ma iniziammo a rincorrerci intorno ai tavoli, non c’era poi così tanta gente. La pizzeria dello zio la conoscevo bene, e così riuscivo a essere sempre davanti a Federico, che d’accettare la sconfitta in amore non ne voleva sapere proprio. A quei tempi ancora Federica non aveva sviluppato quel sesto senso, che alcune donne hanno, che le indirizza dritti dritti verso i facoltosi (e intendo economicamente). Qualche anno più avanti e Federica sarebbe stata di Federico e non avrebbe mai corso intorno ai tavoli di una pizzeria con me.
A un certo punto non so come ma qualcuno mi sollevo da terra, e io pensai cazzo federico se la piglierà (data l’età e la mia buona educazione – checchè se ne dica – a quei tempi avrò pensato acciderbolina maledetta al posto dell’epiteto “cazzo”). Era mio zio, pare che stavo facendo troppa baldoria (avevo una carriera d’avanti…). Mi mise seduto, mi diede La Sicilia e mi disse: “Stai un pò qua adesso, leggi un pò invece di rovesciare tutte le sedie”. Ero ben educato e restai seduto. Di questa Federica non ne seppi più nulla, ma di sicuro avrà sviluppato quel sesto senso: niente più corse quindi.
Di queste due storie capisco una cosa: se non corro non c’ho gusto. Acchiaparello, nascondino. Le cose facili non fanno per me, sbucciarmi le ginocchia è un rischio che mi piace correre. Quando cado penso al peggio, che il sangue non si fermerà mai più, che non correrò mai più, che in fondo potevo rallentare un attimo prima. Là davanti c’è ancora tanta strada da correre, guardare le ferita non aiuterà nessuno. Neanche me stesso.

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