Per il resto della mia vita, giuro che lo sarò

Si ritorna per un attimo ad un post con del significato, un post personale ma che involve parte di quello che ho sempre raccontato: me. L’avevo detto sin dall’inizio, la mia idea del blog è la mia. Nel senso che è di me che si parla e sono pronto a sfidare tutte le conseguenze che ne derivano, alcune recentemente rivelate.

Prendiamo la situazione di petto. Sono una persona mediocre, non ho particolari abilità da segnalare. No davvero, niente. E ne ho già parlato qua, qua e qua in tempi e situazioni diversi. Dopo averlo capito non ne ho mai fatto mistero, non sarebbe stato d’aiuto a nessuno. Ma, sebbene membro dell’A.M.I (associazione mediocri italiani) io mi contraddistinguo nel mio personalissimo club per ambizione e determinazione. Ma questi valori sono dei fattori derivati dall’ambiente in cui sono cresciuto. Sono nato povero, sono cresciuto povero e solo di recente ho appreso (o forse realizzato?) che, sebben membro dell’A.P.I (che non Algoritmi e Principi dell’Informatica, né tantomeno Alleanza Per l’Italia), ho avuto delle fortune che ben pochi hanno potuto solo immaginare. Ma sono cresciuto con quel senso di colpa che mi portava ad accendere solo una lampadina su due in bagno, che mi faceva rinunciare a Lugano e che mi ha fatto mancare la gita con le brasiliane sulle Rocky Mountains. E’ una colpevolezza con cui sono nato, un marchio che non ha niente da invidiare a quella voglia sul mio inguine (destro o sinistro? questo è un segreto da massoneria!). E’ un marchio di cui vado fiero perché tanto a vergognarsene ce se ne caverebbe ben poco. Fin dalla primina Federico(con cui oggi ho pareggiato a fantacalcio) mi chiamava “‘u campagnolo”. Forse puzzavo di campagna, lui sì che profumava, il figlio del dentista. E questa mia fierezza si strugge e si mostra in tutta la sua pienezza nelle sue due facce. Nel rendermi una persona migliore e, talvolta, una peggiore. E’ quella povertà che mi ha spinto a iscrivermi a Ingegneria a 18 anni appena compiuti, che mi ha fatto iniziare a lavorare nel marzo 2003 durante il derby Milan-Inter. Che mi ha condotto verso una stile di vita assolutamente salutista (o salutario? o saltuario? italiano, mah…), che mi ha portato a pensare una ottantina di volte prima di un acquisto di qualsivoglia genere e che, infine, mi ha condotto nell’odiare lo shopping (della volpe e l’uva è stato detto abbastanza, ma questo post sullo shopping e sull’amore ai primi tentennanti passi lo conoscono in due persone: pinocchietto alla riscossa sfogo beckstiale).
La mia povertà mi ha portato a desiderare il successo (o quantomeno i soldi che ne derivano) come un pesce fuor d’acqua, rantolandosi e battendosi con ogni forza rimasta, sogna di riguadagnare l’acqua. Ho una cosa in più rispetto ai miei amici, rispetto le persone che conosco. Quella cosa che mi porta a dire “fanculo l’Italia e gli affetti io vado dove il lavoro mi chiama” non è che mi venga difficile, non sono da lodare: è ciò che ho desiderato ogni volta che dovevo sognare qualcosa per addormentarmi durante il noioso sonnellino pomeridiano, è ciò a cui pensavo durante l’attesa in fila dal dottore e ciò che ho ambito durante ogni interminabile camminata che m’avrebbe condotto nell’aula dove si sarebbe svolto l’ennesimo anonimo esame. Diventare ricco è quello che rispondo a chi mi chiede il senso della mia vita e sono consapevole che ricco non lo sarò mai fintanto che avrò quella sensazione che potrei facilmente chiamare il senso di colpa del povero. E io povero lo sarò per sempre, perché sentirmi povero in fondo mi piace. Mi fa sentire il migliore in qualcosa, mi fa sentire diverso e inferiore a loro, quegli altri. Li guardo, li disprezzo, li odio. Stringo la mandibola dentro ma loro non lo sanno, li guardo e mi so che saranno pure più ricchi adesso ma quel ragazzo nell’angolo ha qualcosa che non hanno mai avuto e che forse non avranno mai. E loro, gli altri, sono i miei migliori amici, parenti vari, svizzere che girovagano per il nord-America e gente che leggo on line.
C’ho quella cosa dentro di me che non mi fa sentire un bastardo nel rubare una bicicletta e che non mi farà sentire mai un bastardo nel togliere agli altri per dare a me, per farmi ricco. Robin Hood non è un concetto che ho portato io nelle videocassette dei bambini piccoli ma io posso dire che ognuna delle centinaia di volte che l’ho guardato c’ho trovato gusto. Sono razionalmente consapevole dei disagi che tale ricerca sfrenata di appagamento possa recarmi, pare che abbia pure spaventato gente con la mia ambizione. Tempo fa lo faci con gli occhi, c’era il muro ed era un altro me. Ma vaffanculo, se è un bastardo che diventerò io lo sarò e proprio adesso sto ridendo senza aprir le labbra. Chissà che si prova a sentirsi povero da ricchi, un giorno son sicuro che ci scriverò qualcosa su.

”Vorrei ringraziare i miei genitori a Vergaio, un piccolo paese in Italia, grazie mamma e babbo. Loro mi hanno dato il regalo più grande: la povertà; e li voglio ringraziare per il resto della mia vita.”
[Roberto Benigni, Los Angeles, Premiazione Oscar, 1999]

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