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A gelosia come ti poni tu?

Cara Teresa, nel breve tragitto che da casa mia porta a casa tua, e da casa tua porterebbe in un lampo anche a casa mia, ieri ho notato due operai che smantellavano una cabina del telefono. Le vecchie cabine del telefono. Non so quante telefonate ti avrei potuto fare da quelle cabine telefoniche. Forse seicento. Magari mille. O forse non eri tu: era un’altra. Certo che era un’altra, ora ricordo. Gran donna è stata quell’altra a cui avrei potuto telefonare da quelle cabine di una volta. Le compravo fiori e cioccolatini tutti i giorni. Andavamo insieme al cinema, al teatro, al ristorante, e anche in macchina. Ci amavamo alla follia. Ci baciavamo pure col raffreddore. Era la ragazza più bella del mondo, e se la memoria non mi inganna sapeva anche l’inglese. Nessuna donna potrà mai eguagliarla. gelosia come ti poni tu? Dicevo, l’altro giorno ero lì che passavo davanti a una di quelle vecchie cabine del telefono quando all’improvviso mi è venuta un po’ di malinconia. Da quanto tempo non sento la tua voce? Così, un po’ per necessità e un po’ per disgrazia, sono passato a trovare un amico. Anche se non hai i capelli molto lunghi, un amico che fa il barbiere è sempre una buona spalla su cui sfogare le proprie pene. Una buona spalla a patto che la spalla su cui ci si deve sfogare non sia la tua. Fissandomi dallo lo specchio senza badare ai capelli, il barbiere mi ha riportato per filo e per segno il pranzo del matrimonio di suo cognato in cui era convinto di essere ingrassato almeno di tre chili, e a tutti gli invitati gli scoppiava la pancia, tanto che per non finire il dolce uno si è buttato in piscina con le scarpe.Poi è passato a raccontarmi il matrimonio con sua moglie la stessa donna che origliava da dietro la stanza delle scope –e solo alla fine mi ha permesso di spiegargli come vedevo le mie nozze, ovvero in qualunque modo, in qualsiasi posto, basta che sia presto. Più tardi, ma solo perché il mio taglio era terminato da un pezzo, e il signore che aspettava seduto alle nostre spalle sembrava urlare dai capelli, il barbiere mi ha salutato dicendomi che dalla settimana seguente si sarebbe trasferito in un altro quartiere, in un salone più grande insieme alla moglie, la quale, nel frattempo, era inciampata su una scopa mentre andava alla cassa per fortuna senza gravi conseguenze. Visto che nonostante tutto siamo buoni amici, penso che continuerò ad andare da lui, anche se con l’autobus dovrò fare una strada più lunga, ma spero un giorno di poterti sposare lo stesso. Edoardo


Il prezzo da pagare

Tratto dal Ghezzi-Mandrioli, “Informatica Teorica”.

 «

[…]sfortunatamente, i calcoli, come molti altri servizi, costano. Anche se si avesse libero accesso al più potente calcolatore del mondo, vi sarebbe ugualmente un prezzo da pagare: il tempo. Se non è possibile ottenere una soluzione di un problema entro un “ragionevole” intervallo di tempo, il problema diviene praticamente intrattabile, anche se teoricamente risolubile.

 »

Capitolo 3, pag.231. Edizione del ’15-’18.

http://en.wikipedia.org/wiki/Decision_tree

Fino alla fine della strada

Quando non c’ho tempo, come in questi giorni, di scrivere post su post penso ai post che potrei scrivere. Come detto più volte le cose migliori ti vengono in mente nei momenti più inaspettati. Ad esempio salire le scale(salire regge l’accusativo o è un sicilianismo?), non so bene il perché, è un momento molto prolifico per le mie opinioni. E poi in ordine sparso, mentre mi lavo la faccia quando inizio ad assopirmi quando faccio finta di far shopping.
E allora dopo la teoria del budino, le premonizioni del mio muro ho pensato che sarebbe un bello amarcord ritornare a parlare ancora una volta del muro, quello vero.
Il Muro è una cosa così importante che esiste un prima del muro e un dopo muro. Ci sarà un prima del Canada e un dopo Canada. E mille altri prima e dopo che segmentano la mia vita. Ma il muro segna il passaggio all’età quasi adulta, l’inizio della fase occhi cattivi e muso lungo e la fine della fase le femmine sono tutte buttane. Le femmine, infatti, sono tutte molto più puttane more&more. Poi anche quella fase è passata ma c’è voluto un pò, c’è voluto una cosa importante. Così adesso c’è anche un altre fase prima e dopo. Ma queste sono altre storie. Story of my life.
Duli dice che il mio vezzo a raccontare storie l’abbia preso da mio nonno. Macchè io mi sto esercitando per quando sono papà, che poi dirò a mio figlio cose del genere “…io alla tua età già[cosa a caso anche finta]!”.
Sergio invece, fra i nostri discorsi mentre copiamo noiose tabelle (che rappresenteranno -si spera per lei- il futuro di tutta la vita della Duli suddetta), dice che siamo uomini profondi. Nel senso che di maschi come noi sono rari, e lui pensa di essere il principe azzurro di qualcunA. La bestia del mio amico è il quasi principe azzurro di una donna che ha gli occhi chiari, i capelli rossi, una tenuta coi cavalli e una barca a vela. Io non l’ho vista ancora di persona quindi non posso ancora dire se è bella anche se so già che ha i capelli rossi. Dato che non l’ho ancora vista Sergio non è ancora del tutto il suo principino, avete presente che casino che sarebbe uscire con la zita e gli amici che odiano la zita? Ecco…
Io intanto ho l’umore che si sta facendo un giro su una sinusoide avente un periodo p brevissimo (una onda che va su e giù tantissime volte in un breve periodo di tempo, in non-ingegnerese). Ieri ho avuto uno scatto d’ira ma ho giusto spezzato un paio di fogli (sapete che in inglese “foglio di merda” si pronuncia scit sciit?) e non ho distrutto nessun orologio. La cosa è meno grave ma mica troppo, ma comunque ammetto di essermi sentito meglio dopo. Oggi invece è tutto il giorno che corro. Per i corridoi, per andare da Duli, per prendermi i biscotti a cui tolgo la muffa ma che sono buoni lo stesso. Salto sulla scrivania e canto una canzone di Antonacci. E m’è preso di pensare a quella frase di un film arcinoto:

Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’, perciò corsi fino alla fine della strada, e una volta lì pensai di correre fino la fine della città, e una volta lì pensai di correre attraverso la contea di Greenbow. Poi mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale correre attraverso il bellissimo stato dell’ Alabama, e cosi feci. Corsi attraverso tutta l’Alabama, e non so perché continuai ad andare. Corsi fino all’oceano e, una volta lì mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale girarmi e continuare a correre. Quando arrivai a un altro oceano, mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui, tanto vale girarmi di nuovo e continuare a correre; quando ero stanco dormivo, quando avevo fame mangiavo, quando dovevo fare… insomma, la facevo! 

Pare che abbiamo oltrepassato in un modo impeccabile la curva cieca del nostro destino. Sembravamo Rossi in quel sorpasso mozzafiato all’ultima curva su Lorenzo, solo che nel fare tutto questo eravamo in una sala operatoria. Adesso aldilà della curva compare una salita, una lunga salita. Si vede la fine e allora sembrerà tutto più facile. Le cose più difficili da fare sono quelle di cui non si capisce il senso, ma in fin dei conti è come risolvere un tema d’esame senza guardare le soluzioni. Poi le guardi ed è tutto banale, ma prima erano tutte banane.
Ho disattivato la You&me. A quanto pare non è servita, dovrebbe essere una bella notizia. Ma è una di quelle curve cieche che non capisco dove mi porteranno, Sergio dice che “…aspettare e finire l’esercizio intanto!” potrebbe essere una buona idea.
Il primo esame è andato abbastanza male, e questo è un bene. Io c’ho un modo tutto mio di motivarmi. Mi faccio sentire una merda e poi mi sfido a dimostrare il contrario. Non so bene come funziona questo gioco delle parti ma alla fine della fiera non ho ancora capito se sono ‘na mezzasega molto motivata o un quasi-genio  senza autostima. L’importante è correre, fino alla fine della strada.

…e siamo in duecento!

E’ da un pò che non scrivo. C’ho avuto il blocco dello scrittore, anche se non sono uno scrittore. Ma c’ho avuto il blocco lo stesso. Questo è il duecentesimo post che sta scritto qua. Se, duecento. Ricordo ancora quando iniziai col primo: venivo dalla geniale invenzione della metafora dell’equilibrista, e bisognava fare sul serio. Così iniziai a parlare di cose a caso, poi di caso a cose e poi ho iniziato a raccontarmi. E così è stato che questo blog ha attraversato tutte le fasi dell’amore, tutti gli alti e i bassi della mia breve carriera di aspirante ingegnere e tutti i flussi di coscienza che soltanto chi vive può raccontare senza inventare.

Allora ho pensato che questo duecentesimo post doveva essere importante, parlare di argomenti considerevoli con un italiano quanto mai perfetto. Ma poi il tempo è venuto a mancare, gli esami stanno sfondando le porte e io mi sono bloccato. E poi ho detto, se voglio continuare a scrivere devo fare un altro post. Non c’è modo. Centonovantanove sono pubblicati, uno rimarrà per sempre una bozza. Diciamo che questo è il centonovantanovesimo-post-più-uno.
Riassunto: sono ancora un quasi-ingegnere: sto studiando come ordinare le cose (Algoritmi e principi dell’informatica), come fare in modo che tante cose entrino in poco spazio e riuscire a far funzionare il tutto decentemente (Reti logiche). Studio come funziona la rete, non quella per pescare (Reti di Telecomunicazioni e Internet) e l.b.n.l Basi di Dati: il corso che dovrebbe spiegarci come e perchè sono importanti le tabelle. 
Sto iniziando a guarire (no in realtà ho ancora la tosse, ma non mi riferivo a quello). Il mio prof di Teoria dei Sistemi (esame già svolto, non so come, chiedete a duli per queste cose) dice che i ricordi di ogni uomo tendono asintoticamente a zero col passare del tempo.
Questo blog è seguito sempre dalle solite persone, più qualcuna in più. Questo mi fa piacere, quando si è troppi a mangiare poi c’è troppo poco da mangiare. E a me piace mangiare, da matti. Mamma ha finalmente rinunciato all’utopia di farmi superare i 60 chili, e io quasi quasi per dispetto sono tentato di superarli.
Doveva parlare di cose insignificanti (Minciati cù l’uossi aruci è giusto un paradosso: non esistono ossa dolci, le minchiate più minchiate che esistono insomma) ma poi mi sono innamorato. E m’è presa la sindrome di Ivan (appena definita così) e tutto il mondo ha iniziato ad assumere un aspetto meraviglioso. E anche adesso è ancora così, come essere ubriachi anche senza bere. 
Sto leggendo un libro che tratta di numeri primi, quel tipo di numero che può essere diviso solo per sè stesso e naturalmente per uno. C’è molta magia nel campo della matematica dietro questi numeri, e le persone che nel passato hanno studiato tali numeri sono anch’esse magiche, talvolta bizzarre ma sempre uniche. E una frase mi ha così tanto colpito che in realtà è stata lei, la frase, a convincermi che fosse ora di scrivere.
“Ci sono un sacco di cose che giacciono sulla spiaggia e che non vediamo finchè qualcuno non ne raccoglia una. Allora, quella, la vediamo tutti”

E’ una frase di una donna, una delle uniche (favoloso errore, una delle uniche) donne matematiche riconosciute: Julia Robinson.
Non so perchè ma questa frase è magica, come il mistero dietro i numeri primi. Ogni discorso potrebbe iniziare con questa frase, e proseguire in modi variegati. Io non ho ancora deciso quale discorso della mia vita far iniziare con questa frase, ma ho in mente qualcosa. Come la foto che appare in alto.
Si sono io, anche se il mio culo sembra più grosso. Sergio dice che me l’ha pompato con qualche sua diavoleria. Ma oltre a questi discorsi anatomici mi piace l’idea di essere su dei binari. Con un piede, con l’altro faccio quel che voglio. Scarpe di ginnastica, jeans e capelli sparpagliati. Come vorrei essere per tutta la mia vita. Culo rivolto al passato e un infinità di futuro davanti a me. Chissà cosa c’è alla fine di quei binari, se incontrerò tram guastati o se ci saranno altri controllori a farmi le multe per eccesso di furbizia. Il passato è così vicino (il pezzettino di rotaia dietro il mio culo), non scordo quello che ho fatto: sono un flip-flop insomma. E c’ho molto pane e cipolla da mangiare, per diventare grande grandissimo. E chiaramente sono ben disposto a smentire i teoremi dell’ordinario. Un flip-flop ribelle che mangia la cipolla (questo è un flip-flop).
Vi hanno mai detto che due rette parallele non si incontreranno mai? Che due persone apparentemente inconciliabili non si uniranno mai? Perchè allora quei binari lì, alla fine della loro strada, si sfiorano, non vedete anche voi come danzano felici? E duecento post in questo piccolo blog non potranno mai bastare per spiegare la vita di quei due binari, del perché poi hanno deciso di unirsi a ballare all’infinito è meglio non provare neanche a parlarne. Ci sono momenti in cui si deve finire di raccontare, momenti in cui bisogna solo ascoltare.

231.584.178.474.632.390.847.141.970.017.375.815.706.539.969.331.281.128.078.915.826.259.279.871 è il più grande numero primo che si conosca. Non ha saputo dire su due piedi a chi importasse.

…come questi duecento interventi. Al prossimo racconto allora, per chi importa :)
P.S In realtà era divisibile per 47, ma è così importante dirlo dopo per chissà quanto tempo avranno calcolato quel numerone?

Il vento che soffia forte

Ho passato molto tempo a pensare. Poco a scrivere e molto a pensare. A cosa serve questo blog, a cosa è servito realmente, a tutto quanto di bello e buono c’è scritto qua dentro. Adesso ho in mente quel post sulla porta del paradiso, ma tanto non se lo ricorderà nessuno. Me, mi basta che sia io a ricordarlo.
Dopo ogni fallimento che si perda un pò di autostima ritengo sia una cosa piuttosto normale, e tutti i miei sforzi adesso sono concentrati a non farla calare sotto quella soglia che ritengo pericolosa. Poi se consideriamo che volevo essere l’uomo perfetto e la concreta consapevolezza che non lo sono affatto, tutto quello che ne è conseguito e che sta per accadere attimo per attimo, tutto ciò non m’aiuta neanche un pò.
Così mentre pensavo mi viene in mente un motivetto, una canzoncina. Provo a ricordare qualche parola, la cerco su google e riesco a trovarla. Mi sembra carino raccontare anche l’aneddoto che c’è dietro.
Ero piccolo, sui 5 anni scarsi, avevo iniziato da poco la primina. E non sapevo disegnare. Cavolo, adesso che ci penso è proprio una cosa buffa. Si, non sapevo designare e mio cugino Davide ci riusciva benissimo. Io non sapevo disegnare gli uomini, non sapevo disegnare le case. L’unica cosa che mi riusciva piuttosto bene erano gli alberi e le nuvole. Soprattutto gli alberi, ero bravo a fare gli alberi.
Però per un bambino saper disegnare solo gli alberi è un pò poco, così passavo triste intere giornate e spesso piangevo. Chissà cosa pensava di me mia madre in quei momenti: abusi da parti dei preti, maestre violente, nonnismo o forse bullismo. Affatto, io non sapevo disegnare le persone e le case, solo gli alberi; a lei dicevo che niente, non era successo niente. Ma in quei giorni non era così per me. E cominciai a dire per casa che io non sapevo fare niente, e avevo pure ragione: per me disegnare gli uomini e le case come sapeva farlo mio cugino era tutto! Ero assolutamente convinto che non sapevo far niente, non sapevo neanche disegnare. Ancora oggi disegno le persone esattamente come lo facevo allora, ma ora questo non è molto importante per me, perciò non mi dispero.
Se mai mio figlio dovesse incominciare a piangere dicendo che non sa fare niente io so cosa dovrò fare, quello che non so è come venne in mente a mia madre la soluzione alla mia disperazione.
Un giorno vidi un foglio proprio dietro la porta della mia stanza, la mia bellissima stanza. Lo aveva attaccato lei, lo capì subito e mi misi lì a leggerlo: era una canzone, forse una canzone scout. Non l’avevo mai sentita prima, eppure ne conoscevo tante di canzoni scout. Faceva così:

Rit. Dove troveremo tutto il pane
per sfamare tanta gente,
dove troveremo tutto il pane
se non abbiamo niente.
1. Io possiedo solo cinque pani,
io possiedo solo due pesci,
io possiedo un soldo soltanto…
io non possiedo niente. Rit.
2. Io so suonare la chitarra,
io so dipingere, fare poesie,
io so scrivere e penso molto…
io non so fare niente. Rit.
3. Io sono un tipo molto bello,
io sono intelligente,
io sono molto furbo…
io non sono niente.
Dio ci ha dato tutto il pane
per sfamare tanta gente,
Dio ci ha dato tutto il pane
anche se non abbiamo niente.

Qua ( Dove troveremo tutto il pane) potete pure ascoltarla, lo consiglio fortemente: io la ascolto da tre giorni un attimo prima di studiare, un attimo prima di essere triste, e un attimo prima di addormentarmi.

A me sta storia del Dio non mi convinceva tanto neanche allora, e di per sè tutto il testo non mi consolava tanto. Ma se me lo ricordo adesso dopo quindici lunghi e travagliati anni vuol dire che allora fu davvero una cosa importante.
Prima di tornare qui a Milano ho rivisto alcuni dei posti più significativi che mi legano alla mia terra. Non sono andato a vedere il muro questa volta, ma sono andato nella casa dov’era attaccata quella canzone. C’era una bici da bambina davanti alla porta, una automobile, l’albero di fico. Mancava qualcosa, le persiane sono state cambiate: ma quella resta la mia casa che riavrò indietro.
Adesso me lo ripeto da un pò: qualsiasi cosa io so fare, e qualcosa so fare, sarà quel che farò. Non m’interessa di non saper disegnare, non m’interessa più. Che quello mi sia di esempio per le difficoltà che tocca scalare oggi. Devo preoccuparmi di quello che so fare, e farlo sempre meglio. Sempre meglio.

Gli alberi, erano il mio disegno preferito. Stanno in tutti i miei disegni da piccolo. Ma mi venivano tutti con la chioma storta, sporgeva a sinistra. Per quanto mi sforzassi quest’albero era sempre piegato verso sinistra (solo adesso però posso dire che non era un bug, era una feature). E allora decisi che era giusto così, era giusto che ogni mio albero era spostato tutto a sinistra. Quando mi chiedevano perchè erano tutti storti io rispondevo: “Non vedi che c’è il vento che soffia forte?” 
Del resto per quale altra ragione quell’albero tende a sinistra ?

“Les grandes personnes ne comprennent jamais rien toutes seules, et c’est fatigant, pour les enfants, de toujours et toujours leur donner des explications.”
[Antoine de Saint-Exupéry,Il piccolo principe]

Il povero bracciante

“… Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.”

11:59
4 Settembre 2006

“Un autentico paradiso per un misantropo”

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Ma il signor Heathcliff contrasta singolarmente con la sua dimora e con un simile stile di vita. L’aspetto è quello di uno zingaro, il suo viso è abbronzato, ma l’abito e i modi sono di un gentiluomo; voglio dire un gentiluomo come lo sono molti proprietari di campagna, cioè un po’ trascurato; ma a lui tale negligenza non torna di svantaggio, essendo bello di persona, con un portamento eretto e piuttosto altero. Può darsi che alcuni lo taccino di volgare superbia; ma nulla di simile: io sento per istinto che la sua riservatezza nasce da avversione per ogni dimostrazione sentimentale troppo viva e per ogni manifestazione di gentilezza reciproca. Egli amerà o odierà dentro di sè e considererà come un’impertinenza ogni segno di amore o di odio altrui.

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Grazie.