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Ce l’ho pesante e duro

Sono Gioele. Quello lì insomma, lo sapete no?

Ho due post in canna, come una doppietta ha due cartucce. Chiaramente il primo, questo, è quello che mi diverte di più. E si parla del cervello e di Dio. O almeno si parte da questo. Via!

Il nostro cervello ha tra gli 80 e i 120 miliardi di neuroni. Non lo sappiamo di preciso. Ma dai cazzo. 120.000.000.000. Se avessi 120 miliardi di dollari a colpi di loonie e ne contassi 1000 al giorno mi servirebbero 328 mila e 767 anni per contarli tutti (finirei tra marzo e aprile del 330.779 dopo cristo). Questo è nel mio cervello, nel vostro non lo so ma neurone più neurone meno siamo lì. Di tanto in tanto (ogni giorno) me ne muoiono 190 mila ma, vaffanculo, sareste incazzati se un giorno mentre camminate vi cade il portafoglio con 190 mila euro ma tanto chissenè che a casa c’ho altri 120 miliardi. Ah, il vostro cervello ogni anno perde un grammo. Fanculo, ne ho quasi un chilo e mezzo. E non bevo, e non fumo, e non mi drogo e faccio attività fisica regolarmente. Per questo ce l’ho pesante e voi ce l’avete leggero, per questo io sono figo e voi pure (ma io sono figo più a lungo).

Un computer normale ha 2.6 miliardi di transistor. Ci vorrebbero 32 computer per fare un cervello. Avete presente quanto calore produce un pc? E adesso pensatene 32 e inoltre rinchiudetele in una scatola della grandezza della nostra scatola cranica. E non vi lamentate quando fate uno sbadiglio, dobbiamo pure raffreddarli ‘ste CPUs. Un transistor tuttavia è un coso che ha due stati, un interruttore: acceso/spento. Tuttavia abbiamo assunto che transistor=neurone ma in realtà ci vogliono 20 transistor almeno per simulare un neurone. Il che rifacendo i conti è come se avessimo 40960 computer nel nostro capo. Non il boss, il coso che avete attaccato alle spalle.
E non abbiamo considerato che in un normale pc ci sono solo 4 processori. Ed è, fidatevi, un macello farli comunicare efficientemente. Non è umanamente possibile avere quaranta mila processori che collegati con un filo sono tanto efficienti quanto quel coso che sta inviando impulsi elettrici ai nervi delle mie dita che si contraggono e rilassano a comando.

Tutto quello che ho scritto fino adesso è stato pensato mentre attraversavo le strisce pedonali di Langley Street, mentre tornavo a casa qualche giorno fa.


Taliella ciù ddanni

Chi sono io? Perché quando il mio collega si è tagliato il dito io non ho provato dolore? Perché quando tu ridi io rido ma quando tu piangi a me non me ne fotte un cazzo? (ma se ti conosco piango pure io). Perché? Perché? E non fate i faciloni, datemi un perché che il mio cervello possa capire.
Il mio cervello è “attaccato” per mezzo di connessioni a nervi, tendini, muscoli e schifo vario. Capisco perché le mie mani si contraggono, il cervello manda un segnale elettrico…cioè a una rana morta gli mandavano le scosse e quella si contraeva tutta. Il mio cervello vivo mi può fare contorcere, ne sono sicuro. Ma chi lo dice al cervello cosa fare? Il mio lavoro è dire a quei 12 miliardi di transistor cosa fare (dato un input dammi un output, no inventiva grazie!) (e per farlo ci vogliono i miei 120 miliardi più i 120 miliardi di neuroni di Barney), ma il cervello si comanda da solo? Non funziona. Se il cervello dice al cervello “comandati” chi lo dice al cervello di dire al cervello di dire…avete capito no? E chi mi fa percepire me stesso come me stesso? Io, Gioele. Vedo la gente ma non so cosa sono, cosa vivono. So chi sono io solo perché il mio cervello è appiccicato con dei filamenti al resto del corpo? E cos’è l’anima? Una parola che racchiude il tutto? Come quando io non mi ricordo una parola in inglese e dico stuff, così l’anima. Da qualche parte ci deve essere qualcosa, forse, chiamiamola nimaa, no aspetta, maina…non suona bene..inama…amani, anima.
Poi penso a dio e già non capisco un cazzo di come sono fatto e, dio mio, parlo di dio?

Il mio pensiero, un piede prima del marciapiede, fu che se dio esiste deve assolutamente coincidere col mio cervello. Io non sono dio, il mio cervello lo è. Io non mi sento il mio cervello, io sono il frutto di una serie di input elaborati dalla centrale su in cima e rispediti giù con un adesivo FRAGILE. Il tutto condito da un pizzico di sale.
Che nel mio caso possiamo pure dire che qua siamo in salamoia.

Del perché povero, in fondo, io non lo sono affatto

Mi piace lamentarmi, mi piace sentirmi vittima, colpito da qualcosa grande, più grande di me che mi batte e mi sbatte ma alla fine, come se fosse un film americano, io vinco. E dico nella mia biografia, e lo farò statene certi, e pensare che io sono figlio di contadini. Fantastico nel pensare che i giornali di gossip alla ricerca del mio passato troveranno il mio blog e mi esalteranno per la mia forza d’animo. Poi ci saranno quelli che diranno che sì ero determinato ma in fondo una volta rubai pure una bicicletta. Per non parlare di quel gesto egoistico che aveva rovinato il panorama di una delle città incluse nell’area protetto dall’Unesco più vasta al mondo. Cioè, non è che fui proprio uno stinco di santo. Ma manco una cistifellea per intenderci…
Sarò scemo, byronista o vittimista ma, sebbene non 24 ore al giorno, ho un lucido contatto con la realtà. Ho ripensato all’ultimo post, l’ho sognato la scorsa notte e ha occupato il mio cervello nei momenti di pausa. E per dimostrarvi(-mi) che riconosco ciò che ho e non lo rinnego ecco che tiro giù una lista che mi farà sembrare il primo dei fortunati. E chissà, e chissà…

  • Scrivo da un MacBookPro 13”, c’è connesso un HD da 280GB e un paio di cuffie da 30€;
  • Ho una fotocamera e un obiettivo da più di 1000€ e proprio ieri ho comprato una fondina e una cintura (120$) da aggiungere al mio personale equipaggiamento da fotografo amatore;
  • Scrivo dal Canada, ho vissuto qua 6 mesi e per quanto ne so adesso lo farò per altri 2 mesi. Ho visto la Groenlandia durante il viaggio in aereo e ho vissuto emozionantissime avventure in questo periodo: caccia a nord dell’isola di Vancouver, tour al museo di Sidney e all’istituto di Scienze oceaniche dove lavora Joe. Sono andato a sciare sui monti Washington e presto vedrò Seattle e Vancouver;
  • Ho un giubbotto e una cappotto da circa 300$, ho delle scarpe stilose e un blazer da svariate centinaia di €. E questo solo per citare i pezzi forti del mio guardaroba, che include svariate camice (qualcuna firmata) e maglioni apprezzati da chi me li ha visti indossare;
  • Mangio un burger ogni settimana circa, due tre volte al mese;
  • Ho la possibilità di utilizzare una Ford Fusion full-optional da 40000$ e vivo in una casa che se fosse venduta varrebbe non meno di cinquecentomila dollari;
  • Ho vissuto per tre anni a Milano, studiato e terminato con ottimi risultati il prestigioso Politecnico di Milano. Ho conosciuto gente che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà e gente che mi ha fatto conoscere le sorelle (e non parlo di Daniele),ho lasciato conoscere il perché a molte mie domande;
  • Ho comprato una televisione e un decoder e per un anno sono stato abbonato a Mediaset Premium (anche se il segnale non era perfetto ho passato degli ottimi pomeriggi a Milano nel vedere la mia Inter vincere scudetto, Champions, Coppa Italia e quant’altro;
  • Ho una mamma e un fratello che mi amano e un papà che ci prova;
  • Ho da poco acquistato un appartamento che finiremo di pagare fra 20 anni ma intanto ci si ha i termosifoni e la cucina figa;
  • Ho una salute che un pesce al confronto sembra un malato terminale di cancro alle branchie;
  • Ho risparmi in banca che mi permetterebbero un acquisto di un auto usata o di fare il viaggio della vita per qualche settimana;
  • Ho uno zaino da 110€ e ne ho acquistato uno qualche giorno fa da 60$, solo perché sarebbe stato più comodo nei miei viaggi in bici;
  • Ho due cellulari marcati nokia che sono costati entrambi 400€ (uno nel 2004 e uno nel 2007). Mi appresto ad acquistare un Iphone 4S da 649,99$ come regalo nel caso dovessi ottenere una internship;
  • Sto per ricevere (FORSE) una offerta d’internship con una prestigiosa compagnia conosciuta in tutta il NordAmerica;
  • Sera mi ha prestato una bici da un paio di centinaio di dollari a cui ho acquistato un lucchetto e catenaccio da 35$ e un copertone anteriore da 40$;
  • Sono bello abbastanza dal poter rifiutare “l’affetto” di un paio di svizzere, due brasiliane e qualche asiatica (ma queste non fanno testo, hanno un debole per noi occidentali).
  • Se volessi domani potrei avere ospitalità in paesi come Svizzera (in tre cantoni diversi), Brasile (stato di San Paolo, di Santa Caterina, Minas Gerais e uno stato del nord Brasile di cui non ricordo il nome), Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Turchia, Francia del Nord e Costa Azzurra;

Nel mondo la gente muore perché ha fame, perché ha freddo, perché è sola. Dichiararsi povero sembra un insulto a questa gente, stilare una lista come quel che ho appena scritto rende il peccato ancora più grave. Ma se commisuriamo il tutto all’ambiente in cui ho vissuto (una nazione ricca come l’Italia), paragoniamo la mia esperienza di vita a quella dei miei compagni di scuola e generici (generalmente benestanti) io risulto meno abbiente del figlio del dentista, del figlio del ristoratore, del figlio di professori, del figlio di dipendenti comunali, del figlio di giornalisti. Ed è in questo contesto che ho sviluppato quel fuoco di tenacia e ambizione che mi porta a sognare di diventare ricco. La povertà che mi ritraggo addosso nei momenti di sconforto è la diavolina che incendia i miei sentimenti, l’alcool che non permette ai miei sogni di spegnersi, la benzina che mi porta ad essere migliore di te. Sebbene sia nato mediocre.

Khadir

Con Khadir parliamo in inglese. Lui parla in inglese, io ci provo. Una valida comunicazione fra noi c’è sempre stata però. Khadir è stato il mio roommate (compagno di stanza) fino a 5 minuti fa. E’ appena andato infatti a un “salsa party” con una ragazza colombiana; così l’ho salutato. Di quei saluti che si sa che sono degli addii, o al più un ci rivediamo in un’altra vita. Ci siamo stretti la mano come fanno due uomini. Ma di un tratto lui mi ha tirato il braccio e m’ha abbracciato. Due secondi, poca roba. Due pacche sulla spalla e un Thank you.
Ma prima m’aveva detto questo…(traduco in italiano perché sono bravo a capire ma meno bravo a scrivere in Inglese).
Khadir dice che sono il migliore roommate che ha mai avuto.
Dice che siamo sempre stati opposti, lui vive di notte io vivo di notte: così io gli ho rotto le palle la mattina e lui ha rotte le mie la notte. Dice che sono davvero un ragazzo d’oro (very nice guy), che merito tantissimo nella vita.
Khadir dice che non riavrò più vent’anni, non gli ho detto che ne ho fatti 21 lo scorso venti giugno. Dice quindi che merito un giorno di vacanza in una settimana di studio. Dice che fra cinque anni ripenserò a lui e a tutte le volte che mi ha chiesto di uscire con lui e io ho declinato l’invito per via dello studio.
Enjoy the life, enjoy enjoy!! 
Sembrava che mi stesse rimproverando, il suo era un tono d’ammonimento.
Khadir stasera si vede con una ragazza colombiana. Io gli ho chiesto che fine ha fatto la sua ragazza francese. We broke up. Si lassaru. Perchè? Why not!?, mi ha risposto lui. Khadir pensa così. Bisogna trovare un motivo per non fare una cosa, ma di default tutto si può fare. Come quando, due settimane prima di quegli esami che avrebbero deciso l’esito della sua borsa di studio necessaria per sopravvivere a Milano anche l’anno prossimo, se ne andò a Pamplona, alla corsa dei tori.
Non essere come me mi ha detto. Io sono un ragazzo pazzo, ma tu studi troppo. Enjoy the twenty.
Khadir dice che quando è arrivato in residenza per la prima volta, Cecilia (la direttrice di qua) gli ha chiesto in che stanza volesse andare. Fammi vedere le opzioni, ha risposto lui. E quando ha visto il mio nome, un nome italiano, ha pensato che fossi come il suo amico di Foggia: un italiano pazzo come lui!
Non so se l’ho deluso, l’ho odiato le ultime notti in cui mi ha svegliato per il suo russare incessante, ho odiato il suo disordine malato (c’è una pentola sotto la scrivania mezza piena di pasta col tonno cucinata più di dieci giorni fa), il suo profumo mi da la nausea dato che lo spruzza fin dentro le ciabatte (e l’ha spruzzato pure sul pavimento quando gli è caduta una bottiglia di birra di un litro). Ma Khadir è quell’uomo che mi ha detto quasi subito che sono peloso quasi quanto lui. E’ quell’uomo che pensava che facessi impurità in bagno dato che mi portavo il pc nei miei momenti di relax (cacca) e perciò mi diceva con un ghigno “Be carefull”. Sii pieno d’attenzioni, stai attento insomma. E’ quell’uomo che ride come un dannato guardando l’isola dei famosi, edizione turca. E che in genere, proprio come un vero turco, è dedito all’alcool.
E’ un uomo particolare Khadir. Ma per me è speciale. Basta il fatto che ho condiviso con lui un anno della mia vita. E per questo che, abbracciandolo, mi sono sentito felice. Anche se le braccia che m’avvolgevano erano quelle di un uomo.

E’ bene ricordarlo.

E’ impressionante, favoloso al solo pensiero, come io adesso stia qua allegro e penserioso a scrivere su un letto con una coperta arancione un pò verde e fra un pò – senza poterne decidere il modo e il motivo – salga su un’ambulanza che mi porterà più veloce della vita dentro una cassa, che diventerà la mia eterna casa.
E’ curioso come spendiamo la maggior parte del nostro tempo a elucubrare su tutte e le sole cose di cui sconosciamo l’assoluta ed effettiva realizzazione.

Come un toro che va fino al macello.

Gli strumenti che ho a disposizione mi informano che non scrivo dal 25 Novembre, ma, fortunatamente, gli attimi che sanciscono gli attimi importanti della mia esistenza è svincolata dagli interventi che vengono pubblicati in tale blog.
Gli strumenti che ho a disposizione, con identica puntualità, mi informano che è giunta l’ora di svuotare il sacco di emozioni che ho ordinatamente accatastato nei pochi angoli vuoti del mio cervello.

Come un toro che va fino al macello. Ecco, è di questo che il cervello straborda, e devo trovare al più presto qualcosa per tappare questa falla. Che bene non fa a nessuno.
Come un toro che va fino al macello.
Non è che sia un tipo di molti ideali, poche sono le bandiere che sventolano dal balcone dei miei pensieri. Giusto quel paio di punti fermi, che talvolta tremano, ma che il più delle volte conducono i miei giorni per mano, verso lidi sempre migliori. Così almeno si spera.
E uno di questi punti fermi – e ne sono abbastanza certo – è il tentativo di allontanarmi/scappare/annientare la mediocrità. In tutte le sue forme, la mediocrità in me è una cosa che ripudio. Meglio essere un abile truffatore che un discreto impiegato, qualcosa del genere ecco. Essere il migliore, in cosa saranno le circostanze a deciderlo.
Ma come quel naufrago che più tenta di sfuggire alla furie delle onde e più viene risucchiato giù, come quella pianta che più mira in alto e più s’affloscia sul fragile gambo così io, scappando dalla mediocrità, mi trovo unito ad essa in un abbraccio ripugnante.

Avrò avuto 10 anni, o forse più (conosco l’età “esatta” degli eventi della mia vita perchè ho un termine di paragone fisso fra gli 8 e i 9 anni, e divido la mia vita in prima e dopo). I miei divertimenti erano compresi tutti fra un PentiumIII con 800Mhz di processore e 512mb di Ram e la strada. Mediocre. Il pc era un buon pc, ma non il massimo. In strada ricordo esattamente di non essere il leader, mi facevo rispettare ma non ero un leader. Funzionava così: se eri bravo col pallone eri il capo del gruppo. Se non lo eri al massimo bussavano alla tua porta quando mancava un portiere o quando nessuno voleva contare a nascondino.
E io potevo contare solo sulla agile corsa e la forza nel tiro. Niente eleganza, solo furbizia e potenza fisica.
Dopo un paio d’anni, in strada non scesi più. Niente più calci ad un pallone sotto il sole d’estate, in mezzo ad una strada dove anche le auto non riuscivano a capirci. Niente più fughe a casa col cuore in gola perchè avevi tirato forte contro l’auto nuova del vicino. E i segni del pallone erano rimasti indelebili su quello sportello. Scappa, scappa: e se il pallone è il tuo inizia a pregare.
A scuola il migliore lo sono stato raramente. Così urlava la pagella a fine quadrimestre. “Il ragazzo è intelligente, è che non si impegna” erano le parole che mia madre era costretta a subire durante i colloqui. Nè il migliore, nè il peggiore. ‘Nto mienzu.
Non ho voglia continuare a raccontare episodi, storielle. Solo vecchie storielle, che conservo per i figli e i nipoti.
E adesso mi ritrovo qua a scrivere su un mediocre letto, conducendo una vita (ancora) ignota, sanza ‘nfamia e sanza lodo.
Quando ho iniziato a scrivere questo intervento (e quindi prima che mi venisse in mente il vortice di pensieri che conduce alla scrittura) mi chiedevo come accade che colui che fugge l’ignavia, ci si ritrova invischiato come una mosca in una tela. E la mosca in quella tela ci lascia l’ultimo sospiro.
Ma alla fine qualcosa l’ho trovata, non sono mediocre in tutto. Almeno così il mio cervello suggerisce.
Ambizione. Sfrenata ambizione. Brama d’assalto ai miei sogni. Senza riscontri effettivi per adesso, ma nella mia testa ho tutta una vita. Disposto a sacrificarmi, a sacrificare per ottenere ciò che voglio. Come quando correvo più veloce degli altri per sfuggire dalla morsa del vicino con l’auto impallonata, correvo per arrivare per primo nel nascondiglio migliore.
Farsi il culo (non ho trovato espressione equivalente) per sfondare di soldi, per poter far ciò che si vuole quindi.
Sono il migliore, si chè lo sono. Le migliori ambizioni stanno dentro di me, e di questo ne sono certo quanto la mia mediocrità nelle restanti abilità.
Come un toro che va fino al macello.
Ecco, si è vero. Un’altra cosa che mi distingue. Impulsività. Come un toro, che purtroppo, va fino a questo macello. C’è poco da vantarsene, ma è così che son fatto ed è così che dico.
E lele ci prova a mettere i paletti, ci provo a non dare calci agli agrumi e pure a comprendere come sui tram tutti ascoltino le tue parole. Bisogna stare attenti, devo stare attento. Ma pare che non mi sia concesso sbagliare, che tutti lo sanno:
Come un toro che va fino al macello.
Io al macello non è che voglio andarci, anzi. Sono un toro gentile, educato e rispettoso della brava gente. Quella gente che è totalmente diversa dai piccoli e grandi bovini intorno a cui sono cresciuto.

Come un toro che va fino al macello.
E’ il Sacro Libro che dice ciò: un toro da monta che va fino al macello. Qualcosa continuo a non capirla, qualcosa tento di comprenderla, e qualcos’altro non lo capirò mai.

“Ditemi una cosa: non è vero che io vi sembro molto brutto?”
“Vero, sì”, rispose “perché io non sono avvezza di dire una cosa per un’altra; peraltro vi credo buonissimo di cuore.”
“Avete ragione”, disse il mostro, “ma oltre all’essere brutto io non ho punto spirito, e so benissimo d’essere una Bestia.”
“Non è mai una Bestia”, rispose, “colui che crede di non avere spirito. Gl’imbecilli non arriveranno mai a capire questa cosa.”
“Se avessi un po’ di spirito”, disse la Bestia, “farei un complimento per ringraziarvi: ma io sono uno stupido; e tutto quel che posso dirvi è che vi sono obbligato.”

Scusa. E basta.

Questo è un intervento di scuse.
Scusa se non ho scritto in questi giorni: mi sono tristemente accorto che quando tristi non lo si è io a scrivere proprio non ci riesco.
Scusa se non scrivo dal 25 settembre: solo che in questi giorni gli spazi concessi alla tristezza sono stati così limitati e concitati che non c’è stato bisogno di ricorrere alla scrittura catartica.
Scusa se qualche spina nella mia corazza oramai dismessa ha ferito qualcuno, che ferite non ne meritava: il mondo è crudele troppo spesso con chi crudele spesso non lo è.
Scusa se ho preferito cedere alle tentazioni adolescenziali, rinnegando i miei principi: quei principi che, pur essendo insignificanti ai fini della rivoluzione terrestre conducano per mano la mia vita.
Scusa se ho il vizio di conoscere oltre i limiti imposti dall’articolo 15e21 della Costituzione Italiana: alcuni questo lo definiscono “scazzinamento”.
Scusa se non so spegnere la luce, girare il volto, dormire, runfare, razionalizzare, cerebralizzare: dicono che usi, costumi, tradizioni e passioni della Sicilia zampillano nelle mie vene.
Scusa fratello mio se hai l’impressione che io mi dimentichi di coloro che possiedono il mio stesso sangue: e scusami se dovrai dirlo tu alla mamma che non dimentico.
Scusa se ho riportato alla memoria, così quasi per sbaglio, di pomeriggi tra lacrime e sangue sotto le coperte di un povero letto: non tutto il sangue che scorre in me ha un buon sapore.
Scusa se ho creduto per anni ch’io appartenessi più alla razza animale che a quella umana: soltanto che mi viene più semplice infiammarmi mostrando i denti che asserire stupidi scuse.
Scusa se ritengo che talvolta essere bestie sia la strada più veloce, più indolore e più pirotecnica per ottenere ciò che voglio: col CAZZO che vado a parlare, a chiarire, a discutere, a fare l’essere umano.
Scusa se non riesco a farti capire che in realtà quel che tu hai capito e così poco che potrei facilmente fare spalline e dire “…non hai capito.”: sarò pure siciliano dentro fuori e nell’intramezzo ma sono un poco sconclusionato con le parole.
Scusa se non c’ho il Cayenne: anche se so che non lo voi.
Scusa se sono puntuale: odio far tardi agli appuntamenti, per questo m’insedierò giorni prima di fronte Via Michelangelo Iorio.
Scusa se ho organizzato solo un giorno prima l’ultima giornata a Torino: si sa, io spezzo il gruppo.
Scusa se non mi sono accorto del mio enorme potere decisionale, esistenziale, territoriale, amatoriale sul resto dei miei amici: essere papa e non accorgersi, per questo chiedo scusa.
Scusa mamma se forse quest’estate potremo vederci per poco, e lo so che è un anno che m’aspetti: proverò a restare con te a settembre.
Scusa se corro troppo: e che quando stai una vita a fare l’arrampicatore, appena ti danno un paio di sci e ti dicono che è l’ora della discesa la prima cosa che si fa e sbattere contro il primo tronco d’albero.
Scusa se sono un ottimo arrampicatore ma un pessimo sciatore: a me gli sci non me li ha mai offerti nessuno.
Scusa se la prossima volta non saluto la gente nei corridoi: si lo so che si dovrebbe fare, ma certe gente merita il saluto negli occhi. Collo sputo.
Scusa se non ho la saliva abbastanza acida: rimedierò mangiando mattina mezzogiorno e sera panino kebab e sgombro.

Per tutto ciò per cui scusa non l’ho chiesto vorrà dire che: o l’ho dimenticato, e quindi non era importante. O l’ho voluto dimenticare, e quindi non era nè importante e non ci dovete rompere i coglioni.
Che stasera mi gira storto, e invece di incazzarmi e rompere orologi che non ho, ho chiesto scusa. E mi lavo le mani spesso, sto attento ai grassi animali e rispetto le scadenze. Verifico che sui miei calzini non ci siano aggrappati stupidi batteri pigliati chissà dove e ho rimosso dalla mia vita il formaggio: è pericoloso!

(…e con questo siamo già al second post di scuse( . ) in tutto il blog, oh cazzo mi sto rammollendo!)

“Pedicabo ego vos et irrumabo”

[Agli studenti del corso di diagnostica]
Nella condizione umana c’è una verità: che tutti gli uomini mentono. La sola variabile è su che mentono. (House)

Ecco io non sono cattivo, e io non dico tante bugie. Soprattutto quando si avvicina il periodo in cui bisogna mandare la letterina a Gesù Bambino, quando arriva il momento che la verità fa del male e quando mia madre mi consiglia gentilmente di osservarla. Suona così all’incirca: “Guardami negli occhi G-I-O-E-L-E, guardami negli o-c-c-h-i “. Ecco soprattutto quando mi guarda negli occhi, dovrebbero farla lavorare in quei tribunali americani ed eliminare i giuramenti sulla bibbia.
Però sarei uno sciocco se pensassi che ognuno di noi ha una mamma come la mia che gli chiede di guardarla negli occhi. E così sono stato costretto a sviluppare un’altra personalissima riflessione. Ecco io non voglio fare il buono della situazione, ma io non darei tanta fiducia alla gente che c’è in giro. Si, ecco lo dico. C’è da stare attenti, in pochi si dispiacciono davvero della tua miopia.
Ecco io non ci riesco. Parto dal presupposto che ogni persona che mi sta vicino ha in realtà un desiderio represso e irrefrenabile di infilarmi la mano nelle tasche – aprire il portafoglio – prendere il danaro – sputarmi in un occhio – tirarmi una ginocchiata nel setto nasale – lasciarmi morire dissanguato – tirarmi il portafoglio sul corpo ormai esangue.
Mi sono posto la domanda, che sono la personificazione del lupo detto “di mala coscienza”, quel lupo che come opera pensa. E può pure darsi che io lo sia.
Ma scusami tanto se ti punto la canna di questo fucile tra le orbite, e scusami tanto se non mi chino a prenderti la saponetta. No, neanche un secondo.
Scusate se io penso a me stesso, se penso che quello che mi sta davanti in tram è un pippatore e se quella donna che ha appena svoltato l’angolo è una mangiauomini.
Pongo sul volto d’ogni uomo una maschera da cannibale, e se ci sarà sotto un volto di un ladro ne sarò piacevolmente compiaciuto.

In fondo c’è da scegliere se vivere dietro un mirino per una vita e annuire sorridendo quando questa, giunta al termine, mi sussurrerà ad un orecchio di aver cannato con la mia teoria. O di andare in giro per strada a chiedere alla prima buttana che passa di premere quel grilletto rivolto verso di me. Lo chiedessero a me esiterei, ma cosa ne posso sapere io delle puttane che girano per la strada.
Scusate, amici che ancora non vi conosco, se i primi giorni che condivideremo non vi rivolgerò la parola se non per farvi notare quel ridicolo brufolo. E scusate, amici che miei non lo sarete mai, se non porterò mai il mio setto nasale al di sotto del vostro mento. Dritto e all’insù, il mio naso, lo sarà finché avrò ossigeno da respirare.
E, scusate per ultimo, se decido io a chi consegnare l’esclusiva di essersi avvicinato tanto da poter conoscere la marca del mio dopobarba.
Che di gente sul tram che mi vuole stuprare, là fuori, ce n’è fin troppa.
*

I giorni trascorsi

Ci provo, sto ascoltando I giorni di Einaudi. Indosso una felpa nera col cappuccio, e la serranda è quasi del tutto giù a irrorare oscurità. Sto su un letto con delle lenzuola allegre coperte da una trapunta nera. Gambe intrecciate e il tempo che scalpita.
Vado…

Le vene del collo erano evidenti, gonfie di sangue. Si poteva quasi scorgere il flusso ondulatorio del sangue che ad ogni pompata diventava più veloce. La mascella serrata, le labbra socchiuse lasciavano intravedere i denti chiusi con forza.
I pugni anch’essi stretti, e ciò faceva emergere le arterie, le vene e i capillari. Quei capillari che a uno a uno scoppiavano negli occhi, colorandoli di un rosso vendetta.
Ogni muscolo al proprio posto, ogni articolazione pronta al colpo e ogni tendine teso. Il primo fendente fu micidiale, tutto fu perfetto.
Non così perfetto da non essere migliorabile. Il secondo e poi il terzo, e poi uno dopo l’altro. Come se non dovesse esserci mai fine. Come se un ago infilzato tra la nuca e il cervelletto ricordasse istante per istante tutto il dolore provato. Giù sul corpo inerme, ogni colpo sembrava essere migliore del precedente. Niente ansia e niente paura. Quella macchina perfetta non lasciava fuggire una lacrima, una goccia di sudore. Niente che potesse far pensare a un sentimento inadatto alla circostanza: pietà e commiserazione erano fuggite dal suo cuore.
E quando il cuore dovette arrendersi a pompare a quei ritmi forsennati, quando la macchina perfetta accennò a cedere alla stanchezza si alzò. Si alzò e aprì i pugni, sciolse la tensione fino ad allora invisibile. E con la forza che non lo aveva mai tradito nei momenti opportuni, senza dar libertà ai muscoli del viso, incise dei solchi sul suo volto. Incise dei profondi solchi con le unghie spezzate, con le unghie familiari a quel gesto apparentemente inspiegabile. Ne uscì del sangue, e l’aria frizzante lo pietrificò.

Lo ricordo ancora.

Come un misero ladro…

C‘è una nuvola fuori. Si, fuori dal finestrino. E’ grande, non poi così tanto grande. Però è mia. Non so come l’abbia deciso, stavo guardando un film su quest’aereo che ballonzola nervosamente, e ho guardato fuori, sì fuori dal piccolo finestrino che m ritrovo accanto. E c’era quella nuvola. Agli occhi di molti può sembrare una come tante, agli occhi del mio vicino è inesistente: si illude di conoscere il mondo sfogliando un giornale. Ma agli occhi miei non è una nuvola, semplicemente una nuvola. Agli occhi miei è indescrivibile, non posso pretendere di dir tutto ciò che vedo, di descrivere tutto ciò che sento.

Quella nuvola ora è lontana, ora non la vedo più. E ci sono molte altre nuvole fuori dal finestrino. Ma nessuna di esse è mia. Non voglio essere presuntuoso, quella nuvola è lì, libera. Forse lei non vuole essere mia, forse vuole continuare ad essere una nuvola…semplicemente una nuvola “come tutte le altre”.

E poi io su questo volo – così come un misero ladro – ho deciso, è mia. Potrebbe sentirsi offesa la mia nuvola, ora che ci penso. Potrebbe rivendicare le sue ragioni, elencare una lista di diritti, potrebbe dirmi che tutte le nuvole non sono di nessuno. Ed avrebbe ragione. Ma deve pur concedermi la possibilità di spiegarle, di spiegarmi. Io non la tratterei mai male, e mai conoscerebbe la furia del vento. Starebbe accanto a me, protetta. Avrebbe la sua vita libera, ma ogni sera tornerebbe da me. A raccontarmi di come abbia trascorso la giornata, quali meravigliose avventure ha vissuto, quali volti ha conosciuto, quali tristezze ha incontrato.

Anch’io ero libero, ma poi l’ho vista. Non so bene perchè l’ho vista, cosa m’ha spinto a distogliere lo sguardo da quel normale film. Ma è successo. L’unica cosa che posso fare adesso è scegliere nel migliore dei modi.–> Anch’io adesso non sono più libero, c’è la mia nuvola.
Devo garantirle protezione, devo mostrarle sicurezza anche quando questa vacilla, devo essere forte. Non posso far lacrimare la mia nuvola, non posso essere causa della sua tristezza.
Chissà, forse non sono io che ho scelto la mia nuvola..

Il giorno felice

Ogni giorno tornando da scuola mi fiondavo ad aprire la porta della mia stanza.
E ogni giorno, tornado da scuola, niente era cambiato tutto come il giorno prima.
Questo per intere settimane, forse mesi, non ricordo esattamente.
Quel giorno che, tornando da scuola, mi ero fiondato senza mollare lo zaino dalle spalle e avevo aperto la porta col fiato in gola, quel giorno che trovai la mia nuova scrivania dove prima c’era uno spazio vuoto…quello fu un giorno felice.

Mio padre mi diceva sempre: “Nun puoi aviri tuttu e subbitu”
Qualche giorno fa il mio professore di Elettrotecnica disse: “Nulla è istantaneo, nulla!”

P.S Ho sempre odiato quella frase, perchè oltre alla scrivania io volevo un cagnolino una playstation una bicicletta più grande una bicicletta con le marce un videoregistratore un fratellino un computer le scarpe con le luci le scarpe senza luci …et cetera et cetera…

…(a) Mare

Bene, ho ripensato a questo video. L’ho trovato dopo averlo strappato alla polvere. mamma se n’è riappropriata rivendicandone i diritti. beh in realtà è suo, dico è un mio regalo ma è suo..uhm…ecco l’ho sempre detto che sta storia del mio e tuo mi fa confondere.

Ecco, in realtà ho già finito. Talvolta bisogna star zitti per far capire cosa si vuol dire, soprattutto se a parlare sono io :)

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