Archivi del mese: febbraio 2011

Le cose cambiano [Aggiornato]

Io ci provo e ci riprovo. In continuazione. 
A fine agosto ho toccato il minimo, fra marzo e aprile è il massimo: questo è lampante. 
Ma adesso io provo e non riesco neanche ad avvicinarmi a quel picco. Sto salendo, è vero. 
Ci sono alti e bassi, dovunque. 
Ed è questo che c’ha rovinato: una bella linea dritta a dodici forse andava meglio. 
Ma qui sembriamo sulle montagne russe. Una volta sul muro ho letto una scritta: 
“Il primo amore non si scorda mai”. 
Ho riso ma non c’era niente da ridere. Capita anche questo. 
Adesso è da un po’ che cresco ma si vede bene che a metà febbraio c’è l’ennesima ricaduta. C’è stato di peggio ma ogni volta pare essere la prima volta. Non ho ancora capito come si fa, ma forse mi vado a far spiegare qualcosa da Pietro. Lui è il maggior esponente che io conosca in materia, 
speriamo che me lo fa gratis il corso.
Adesso sono ad altezza dodici: non è che sia malaccio ma di sicuro non è ventiquattro o diciotto. 
Dodici è il giusto, ma io nel giusto non ci voglio stare. Si capisce.
Comunque sia, sopra possiamo vedere il numero di visite di questo blog. 
What else?

L’abbraccio e la sveglia

[Vorrei che questo fosse il mio miglior scritto di tutta la mia vita, vorrei far rivivere i miei ricordi e vorrei che attraverso questa sequenza più o meno ordinata di lettere possa anche percepire quel che provo. Chissà se saprò schiacciare la giusta combinazione sulla tastiera. Premessa conclusa.]
♪♪♫
Lo ricordo come se fosse ieri. Una domenica mattina. Mattia non era ancora nato, io mi svegliavo sempre presto per via dell’Albero Azzurro che veniva trasmesso alle sette del mattino. Le due stanze da letto erano buie, ma dal corridoio che le separava proveniva una forte luce. Salto sul lettone, papà dormiva dal lato del comò, dal lato destro del letto. Salto su di lui e in preda ad un entusiasmo da bimbetto dispettoso gli chiedo:

“Papà, mi hai sognato questa notte?”

E subito ho continuato:

“Si pà perchè io t’ho sognato,…come fai a non ricordarti? Tu c’eri!… “

Ricordo così tanto questi attimi che le parole sono proprio queste, non una in meno.
Da piccolo pensavo che quando un uomo si addormenta veniva trasferito in un altro posto, e lì viveva la sua vita. E così poteva accadere che le persone s’incontravano, discutevano, si volevano bene. Ed era del tutto logico che una volta svegliate si potevano continuare i discorsi, si poteva finire di cucinare la pasta, si poteva rimanere abbracciati.

Chiaramente in viaggio fra le dune del Sahara

Questa mattina la prima cosa che ho fatto è stata staccare la sveglia. Qualsiasi rumore esterno avrebbe interrotto il sogno e ormai ho capito che una volta svegli non c’è niente da fare: c’è da riprendere a vivere e chi  sogna ad occhi aperti rischia di rompersi l’osso del collo. Quando mi sono alzato ho pensato che magari poteva capitare, per coincidenza per fatalità per errore per gioco, che le persone che avevo sognato in quel viaggio in Giappone avessero sognato me nella stessa casa, nella stessa spiaggia, sulla stessa cabina del trenino sopraelevato. Ho chiesto solo a Duli, ma lei non ne sa niente: lei in Giappone stanotte non c’è stata. Non si ricorda né dell’acqua inquinata del mare giapponese, né della metro a propulsione elettromagnetica. Ma chissà, i misteri della notte sono tanti e io non voglio illudere il Gioele bambino, esiste un mondo al di fuori di questo che è pieno di gente che si abbraccia.
Senza il rischio che suoni una sveglia.

Les grandes personnes ne comprennent jamais rien toutes seules, et c’est fatigant, pour les enfants, de toujours et toujours leur donner des explications.
[Antoine de Saint-Exupéry]

    Cuore di cane

    “Ho appena finito di dare sepoltura alle spoglie mortali di Bach, deceduto nel primo pomeriggio”

    (Ho ascoltato queste canzoni mentre scrivevo, fatelo anche voi se potete). 
    Ultimamente è come se aspettassi sempre un messaggio, così scatto sull’attenti ogni volta che suona il cellulare. Spesso è la Tim, e a volte è pubblicità. Oggi è stato questo messaggio inviatomi da mio padre. Ovviamente non è piacevole ritrovarsi a leggere tale notizia sperando che sia una persona x, credendo più realisticamente che sia la tim e ritrovandoti invece a leggere ciò. Faccio qualche passo indietro nel tempo.
    Quand’ero piccolo, cinque sei anni non di più, tornavo ogni giorno a casa sognando di trovare una sorpresa: o una scrivania nuova, o un cagnolino. Abitavamo in campagna, la nostra casa poteva con un po’ di immaginazione sembrare un villino, c’era un orto dietro e una specie di giardino davanti casa. Un cane non era un sogno illegittimo, ma non so perché, non ne ho mai avuto uno. O meglio, ne avevamo, ma nella casa dei nonni, casa che in realtà era una fattoria dove i cani erano gli animali più “umani” del posto. Ma in casa nostra non c’erano cani: per questo un giorno comprerò quel villino, diventerà una villa anche senza la mia fervida immaginazione e comprerò a mio figlio un cane. Anche se è allergico!
    Un giorno tornai da scuola, mi riaccompagnava a casa il padre di una mia amica. Tornai e mamma o papà mi dissero di andare fuori, che c’era una sorpresa. Poteva essere o un cane o una scrivania, nient’altro. Essere dei bambini è la cosa più grandiosa della nostra vita. Erano due cani. Piccoli, tremanti, impauriti. 
    La loro è una storia misteriosa, e io non so perché, ma non c’ho mai creduto fino in fondo. Dice che siano stati trovati nell’immondizia, dice che erano due fratelli e che siano stati salvati col mio sciroppo scaduto: il panacef.
    Uno era nero, l’altro marroncino. Erano due bastardi, ma io non ho mai avuto cani di razza. Ed è per questo che ho sempre apprezzato la bontà degli animali, non la loro discendenza nobile. In fondo con le persone è lo stesso, o quasi almeno. Il nero si chiamò Bach, come il musicista. Il marroncino invece prese il nome di Brown, per via del suo colore. Bach&Brown. Bach era il più serio, Brown era il giocherellone. La favola durò poco, dopo qualche settimana andarono in campagna dalla casa dei nonni. Ma ero felice lo stesso. I bimbi sono sempre felici, lo stesso. I cani crescevano, io crescevo e tutto sembrava una storia di quelle che mi leggevano la sera.
    Erano uno geloso dell’altro e questo faceva sì che o si giocava con loro allo stesso momento o toccava ignorarli per non scatenare le loro gelosie. Un giorno il nonno picchio Brown, ma la colpa era di Bach. Io piansi, non era stato giusto. Ma ero io a piangere e Brown dopo qualche ora era tornato a girare intorno alle mucche ‘nto baddgiu. C’è chi non ama cani, e io stesso non ne pretendo uno a tutti i costi. Ma ci sono alcune cose che potrebbero spiegarci se solo ci fidassimo di loro.Dopo qualche anno Brown morì. Fu avvelenato, così mi dissero. Mangiò una polpetta di quelle che si preparano per le volpi. Ricordo ch’ero triste, ma non dispiaciuto come lo sono adesso. E sono dieci anni più grande, e vivo a Milano e invece di scrivere a quest’ora della notte dovrei essere già a dormire che domani è giorno di studio.
    Sapere che vicino i campi era pieno di polpette avvelenate mi rendeva sicuro che Bach era veramente un cane intelligente, che Brown poveretto non aveva seguito il consiglio del suo fratello maggiore.
    Un giorno vidi persino Bach abbaiare dietro una mucca che stava allontanandosi troppo, Bach è sempre stato un cane libero. Sciolto. Non correva mai dietro le galline, non abbaiava ai gatti se non quando i suoi obblighi da cagno non glielo obbligasse strettamente.
    E’ sempre stato pulcioso per via del suo pelo folto e non curato. Lui è un cane libero, nessuna spazzola né medicinale contro le zecche. Era uno di quei cani che si grattavano con la zampa, ed è come se niente fosse.
    Spesso si faceva trovare con qualcosa in bocca che posava ai nostri piedi quando arrivavamo, dice che fosse un segno di riconoscenza. Non importa se era un pezzo di legno, o un pezzo di sterco di vacca indurito. L’ho sempre accettato prendendolo dalla sua bocca, lui è sempre stato la mia sorpresa di quando avevo sei anni.
    Adesso in questa notte in cui sono appena scoppiato a piangere da solo mi accorgo che certe cose non assumano la loro reale importanza fintanto che restano con  noi. E’ un destino strano, ma si piange sempre per le cose che non potranno più tornare indietro. Quando scendono le lacrime è già troppo tardi. Ricordo l’ultima volta che l’ho visto come ricordo te quel giorno in aeroporto. Lui era diventato sordo per via della vecchiaia, tu mi salutavi da lontano agitando la mano e scomparendo dietro il gate8: in entrambi i casi niente sarà come prima, sono obbligato a crescere ancora, non ti vedrò più con quegli occhi innocenti di quand’eri qua. I tuoi occhi, i tuoi occhi marrone chiaro. Chi altri mai li ha guardati così da vicino, così pieni di amore?


    Da qualche mese c’è un nuovo cane in campagna, che prenderà il suo posto nella fattoria. Anche di lui eri geloso, Bach, lui che aveva appena qualche giorno di vita. Riuscivi appena a reggerti in piedi, ti spostavi solo per mangiare. Ma venivi accanto a noi quando giocavamo col piccolo Tex. Adesso le lacrime sono arrivate al naso e ho il sospetto che non piango solo per te. Voglio che tutto torni come prima e tutto come prima non può tornare. E per questo piango, perché non posso far altro che ricordare.
    Sei morto che avevi quasi sedici anni, o forse quindici. E’ tantissimo per il tuo essere cane. E’ bellissimo immaginare che tu sei sempre rimasto il solito cane, e io ch’ero un bambino innocente sono diventato prima un adolescente e ora quasi un uomo. E tu hai sempre fatto le solite cose, vissuto sempre gli stessi luoghi. Chissà se i tuoi occhi mi hanno visto crescere, cambiare. Chissà se hai visto i miei momenti di sconforto e li hai distinti dai momenti di allegria. Quest’estate nei campi venivi spesso. Io ero triste, passavo i giorni più difficili dell’ultimo anno e tu eri semplicemente lì. Ti rigiravi intorno due tre volte e poi ti sedevi. Chissà se i cani soffrono le pene d’amore, se piangono quando muoiono i loro simili, chissà se vogliono essere cremati o sepolti. Chissà.
    Pensiamo di essere noi a decidere per loro, pensiamo tante cose riguardo i cani. 
    L’ultimo ricordo che ho di te è disteso lungo la strada che conduce fuori dalla campagna. Non avevi sentito la macchina, Matti mi ha ricordato che non sentivi e ho rallentato. Mi sono quasi fermato, ti ho guardato e finalmente m’hai visto. Volevi che sapessi che stessi andando via, non dovevi cercarmi mentre io non c’ero più. Ogni volta che andavo via da campagna, negli ultimi tempi, sapevo che poteva essere l’ultima volta. Ma non avrei mai immaginato che io, Lele, che crede poco in dio, che erano mesi che non frignavo, che non vedo l’ora di lasciare l’Italia, io non mi sarei mai immaginato che adesso avrei pianto -nuovamente- per te, Bach. 
    Non ti scorderò, non scorderò quel giorno in cui ti conobbi la prima volta. Quant’ero felice quel giorno e quanto sarò felice fantasticando su come potrai conoscere queste mie parole per te. Fra un paio di settimane tornerò a casa e verrò da te e ti porterò io un legnetto, se me lo permetti. Grazie Bach, grazie di avermi fatto uscire queste lacrime che ora si sono fermate. Era tanto che erano chiuse qua dentro, ancora una volta sei stato una sorpresa per me. Abbaiare e mordere. E per le pulci basta una grattata, che non c’è niente che possa farci dimenticare quanto sia meravigliosa la nostra stupenda vita da cani.

    Al mio Bach, Lele.

    « 
    Dall’altra parte della strada sbatté la porta di un negozio vivamente illuminato, e ne uscì un cittadino: “Beh, si: si tratta proprio di un cittadino, non certo di un compagno; anzi, questo qui è addirittura un signore. E non che giudichi dal cappotto -non sono così sciocco-. Oggi il cappotto ce l’hanno anche i proletari, o molti di loro. […] Ma gli occhi: lì non si sbaglia, sia che li guardi da vicino che da lontano. Eh, sì, sono assai importanti gli occhi, sono una specie di barometro. Ci vedi quello dal cuore duro, che può schiaffarti la punta dello stivale nelle costole, senza nessun motivo; e ci vedi quello che ha paura di tutto e di tutti. Ecco, proprio un lacchè come questo tipo qui mi divertirebbe prendere a morsi nelle caviglie –
    Hai fifa, eh? Se ce l’hai vuol dire che te la meriti… 
    Tiè… grr… rrr… bau, bau!-“
                             »
    (Michail Afanas’evič Bulgakov, Cuore di cane, Capitolo I)

    …verso il paese immaginario!

    Ok avevo detto che sarei tornato nel silenzio. Ma in questi giorni sono un terribile ottimista, rido e salto spesso, e canto anche fuori dalla doccia. E’ come quando c’è tutto calmo e poi si scatena il temporale. Il naufragio adesso sarà quando esce il voto di reti: rifiutare un votaccio o accettarlo? La media è importante o è più importante mettersi al sicuro per laurearsi probabilmente a luglio stesso? E’ giusto accettare tutti voti per la fretta di andare in Canada o è meglio rischiare un po’ (per la gioia di Paolinò)?
    Comunque a questo ci penseremo quando usciranno i voti.
    Oggi ho scoperto come finisce una canzone che ascoltavo sempre quando avevo 13 anni. Grazie Cla, la ragazza del mio compagno di stanza. E’ la terza traccia di Afferrare una stella, un album di Edoardo Bennato che mi regalò un’amica di mamma. E’ come se avessi visto quel film centinaia di volte e soltanto oggi dopo quasi dieci anni che so come finisce. E non pensavo finisse così, è veramente un bel finale.
    Per il resto c’è un altro aggiornamento. La maglietta porta fortuna s’è scaricata, la camomilla che mi aveva suggerito di prendere mamma mi ha fatto venire una botta di diarrea (francesismo, per restare in tema) nel giorno dell’esame. La nuova frontiera della sortevieniamme è la barba. Il mio primo 30 l’ho preso con una barba di tre settimane. La barba lunga ha un duplice possibile effetto. Uno. Antistress, passo il tempo a farmi i grattini. Due, è un ottimo rimedio per non mangiarmi le unghie, che in questo periodo d’esame son finite nuovamente in bocca. Terzo (si lo so era duplice l’effetto), il prof vedendomi in questo stato potrebbe pensare che ho studiato così tanto che non ho avuto il tempo per curarmi, neanche il tempo per passarmi il rasoio. Ora che ci penso potrei smettermi di fare la doccia, una settimana senza doccia…
    Quando si dice essere un genio!

    Il prezzo da pagare

    Tratto dal Ghezzi-Mandrioli, “Informatica Teorica”.

     «

    […]sfortunatamente, i calcoli, come molti altri servizi, costano. Anche se si avesse libero accesso al più potente calcolatore del mondo, vi sarebbe ugualmente un prezzo da pagare: il tempo. Se non è possibile ottenere una soluzione di un problema entro un “ragionevole” intervallo di tempo, il problema diviene praticamente intrattabile, anche se teoricamente risolubile.

     »

    Capitolo 3, pag.231. Edizione del ’15-’18.

    http://en.wikipedia.org/wiki/Decision_tree

    Il tempo di morire

    Non ce la faccio più. Sono esausto. Dentro. Mi sento svuotato di energie e non bastano gli integratori per riprendermi. A questo punto non so se possa bastare anche un periodo di pausa. Rompo il silenzio di questo blog per un attimo, dopo tornerò silenzioso per un altro pò. Mi ripeto di essere ottimista e spesso ci riesco. Ma poi quando cerco quella vecchia spalla che mi dava appoggio -quando la cerco e non la trovo- casco a terra. Casca a terra il mio umore, cascano anche le mie forze per ricominciare ancora una volta la scalata al prossimo esame.
    In una bella canzone a un certo punto viene detto che c’è qualcuno che urla “per una botta di vita”. So già quando sarà questa mia botta, lo spero almeno. Il problema è che fino ad allora c’è tutto una serie di ostacoli che richiedono che io sia pieno di energia. Non cerco tanto, ma sento la distanza di quella spalla. E i miei tempi di recupero s’allungano.
    Questo semestre non sta andando come sperato. O ho sempre avuto culo in questi due anni o ho dimenticato il modo di studiare. O forse non c’ho più la rabbia e comunque non lo so. Io ci sto provando a costruirmi il mio futuro migliore e i passi falsi credo che ci stanno, che forse potrei esser perdonato per qualche scivolone. Non c’è niente da fare per risolvere la situazione e quel che si può fare lo sto già facendo. Nessun pacco, nessuna giornata di sole, nessuna gita al parco. Serve solo la testa china sul foglio con raziocinio. E poi serve il tempo, quel tempo che a volte va lento e a volte va veloce. Ma sceglie sempre le volte sbagliate. Dove sei adesso? Cosa fai la sera? E’ tutto così buio in questa nuova strada, i miei piedi sono scalzi e non c’è tempo. Tempo, per favore datemi tempo.

    P.S Io che sono un burlone dentro di me spezzo la serietà di questo post: ecco il tempo! 

    Sono un gay?

    Ci sono due cose da sapere per capire a pieno questo post: sono sempre stato un tipo timido, impacciato e molto silenzioso.
    Seconda cosa, in questi mesi ho collaborato col magico politecnico di Milano per assistenza internet nella residenza che mi ospita. C’è chi lo chiama dormitorio, e chi lo chiama pensionato: sono termini appropriati sicuramente.
    Comunque sia fra le varie persone che hanno bisogno d’aiuto ieri è venuta una ragazza francese. Avevo un computer francese, che ha la tastiera totalmente diversa dalla nostra, con un sistema operativo mai visto prima. Limpus o qualcosa del genere pare si chiami. Non ci capisco niente e porto il pc da un mio amico che sta venti stanze più in là. Nel tragitto mi chiede se voglio andare in stanza da lei, a bere dice. Bah, sarò improvvisamente diventato un uomo di cui potersi fidare? Insomma, c’ho i capelli non pettinati una felpa e delle ciabatte. Chi mai si potrebbe fidare di me? E poi la storia del drink mi assomiglia moltissimo a quella della collezione di farfalle. Dico di no e proseguo. Il mio amico non riesce a combinare una cippalippa (si scoprirà che mancavano i driver) e mentre torno indietro verso la mia stanza mi richiede se voglio un drink, che non mi devo fare nessun problema. Bah, io sono impacciato. Timido, e non so parlare bene l’inglese. Avrò fatto la figura del gay, ma le ho detto semplicemente un accennato “i don’t drink, thank you”. Sono tornato in stanza, ho chiuso la porta, ho preso una wuhrer, l’ho stappata e l’ho smezzata con Khadir.
    Chissà che m’avrebbe fatto la francese, se era solo un drink o se era qualcos’altro? Chissà qual’è il modo giusto di vivere, se è meglio un just for fun o un “..perchè è un bravo ragazzo perchè è un bravo ragazzooo…”. Chissà.
    Ho fatto la figura del fricchettone santerellino, ma who cares?
    In fondo anche con i capelli disordinati resto sempre un bravo ragazzo. E mi sta pure crescendo il dente del giudizio!

    Fino alla fine della strada

    Quando non c’ho tempo, come in questi giorni, di scrivere post su post penso ai post che potrei scrivere. Come detto più volte le cose migliori ti vengono in mente nei momenti più inaspettati. Ad esempio salire le scale(salire regge l’accusativo o è un sicilianismo?), non so bene il perché, è un momento molto prolifico per le mie opinioni. E poi in ordine sparso, mentre mi lavo la faccia quando inizio ad assopirmi quando faccio finta di far shopping.
    E allora dopo la teoria del budino, le premonizioni del mio muro ho pensato che sarebbe un bello amarcord ritornare a parlare ancora una volta del muro, quello vero.
    Il Muro è una cosa così importante che esiste un prima del muro e un dopo muro. Ci sarà un prima del Canada e un dopo Canada. E mille altri prima e dopo che segmentano la mia vita. Ma il muro segna il passaggio all’età quasi adulta, l’inizio della fase occhi cattivi e muso lungo e la fine della fase le femmine sono tutte buttane. Le femmine, infatti, sono tutte molto più puttane more&more. Poi anche quella fase è passata ma c’è voluto un pò, c’è voluto una cosa importante. Così adesso c’è anche un altre fase prima e dopo. Ma queste sono altre storie. Story of my life.
    Duli dice che il mio vezzo a raccontare storie l’abbia preso da mio nonno. Macchè io mi sto esercitando per quando sono papà, che poi dirò a mio figlio cose del genere “…io alla tua età già[cosa a caso anche finta]!”.
    Sergio invece, fra i nostri discorsi mentre copiamo noiose tabelle (che rappresenteranno -si spera per lei- il futuro di tutta la vita della Duli suddetta), dice che siamo uomini profondi. Nel senso che di maschi come noi sono rari, e lui pensa di essere il principe azzurro di qualcunA. La bestia del mio amico è il quasi principe azzurro di una donna che ha gli occhi chiari, i capelli rossi, una tenuta coi cavalli e una barca a vela. Io non l’ho vista ancora di persona quindi non posso ancora dire se è bella anche se so già che ha i capelli rossi. Dato che non l’ho ancora vista Sergio non è ancora del tutto il suo principino, avete presente che casino che sarebbe uscire con la zita e gli amici che odiano la zita? Ecco…
    Io intanto ho l’umore che si sta facendo un giro su una sinusoide avente un periodo p brevissimo (una onda che va su e giù tantissime volte in un breve periodo di tempo, in non-ingegnerese). Ieri ho avuto uno scatto d’ira ma ho giusto spezzato un paio di fogli (sapete che in inglese “foglio di merda” si pronuncia scit sciit?) e non ho distrutto nessun orologio. La cosa è meno grave ma mica troppo, ma comunque ammetto di essermi sentito meglio dopo. Oggi invece è tutto il giorno che corro. Per i corridoi, per andare da Duli, per prendermi i biscotti a cui tolgo la muffa ma che sono buoni lo stesso. Salto sulla scrivania e canto una canzone di Antonacci. E m’è preso di pensare a quella frase di un film arcinoto:

    Quel giorno, non so proprio perché decisi di andare a correre un po’, perciò corsi fino alla fine della strada, e una volta lì pensai di correre fino la fine della città, e una volta lì pensai di correre attraverso la contea di Greenbow. Poi mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale correre attraverso il bellissimo stato dell’ Alabama, e cosi feci. Corsi attraverso tutta l’Alabama, e non so perché continuai ad andare. Corsi fino all’oceano e, una volta lì mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui tanto vale girarmi e continuare a correre. Quando arrivai a un altro oceano, mi dissi, visto che sono arrivato fino a qui, tanto vale girarmi di nuovo e continuare a correre; quando ero stanco dormivo, quando avevo fame mangiavo, quando dovevo fare… insomma, la facevo! 

    Pare che abbiamo oltrepassato in un modo impeccabile la curva cieca del nostro destino. Sembravamo Rossi in quel sorpasso mozzafiato all’ultima curva su Lorenzo, solo che nel fare tutto questo eravamo in una sala operatoria. Adesso aldilà della curva compare una salita, una lunga salita. Si vede la fine e allora sembrerà tutto più facile. Le cose più difficili da fare sono quelle di cui non si capisce il senso, ma in fin dei conti è come risolvere un tema d’esame senza guardare le soluzioni. Poi le guardi ed è tutto banale, ma prima erano tutte banane.
    Ho disattivato la You&me. A quanto pare non è servita, dovrebbe essere una bella notizia. Ma è una di quelle curve cieche che non capisco dove mi porteranno, Sergio dice che “…aspettare e finire l’esercizio intanto!” potrebbe essere una buona idea.
    Il primo esame è andato abbastanza male, e questo è un bene. Io c’ho un modo tutto mio di motivarmi. Mi faccio sentire una merda e poi mi sfido a dimostrare il contrario. Non so bene come funziona questo gioco delle parti ma alla fine della fiera non ho ancora capito se sono ‘na mezzasega molto motivata o un quasi-genio  senza autostima. L’importante è correre, fino alla fine della strada.