Archivi del mese: ottobre 2010

Come diventare uno speleologo

Non so come iniziare, quindi “Non so come iniziare” potrebbe essere un buono inizio per iniziare. Ho già detto tre “iniziare” ma non ho ancora iniziato. Ok, inizio.
Non me ne sono accorto da solo, è stata un’altra persona a me cara. Poi uno va avanti, si guarda intorno con l’occhio critico e la mente fresca di “rimprovero” e si accorge che oltre ad essere cara quella persona aveva ragione (come sempre il premio nobel per la discrezione se lo aggiudicherà qualcun’altro).

Madre + Padre + qualche figlio in ordine sparso + casa con camino(ma anche senza) + un paio di automobili = Felicità alquanto pronunciata e saldamente radicata

Pare che però non sia così, ma io questo non lo so. Potrei fidarmi, ma potrei anche essere scettico. Oppure potrei fidarmi ma solo a metà. O solo per cinque settimi. Diciamo che prendo in considerazione l’idea che forse non è così. Solo che quest’estate sono andato a trovare un mio amico, e la sua famiglia mi sembrava perfetta. Si rideva abbastanza, c’era del buon vino, si poteva scegliere che canale guardare in tv, le auto c’erano, la casa pure…insomma se fossi un assistente sociale con la cravatta e una cartella bianca avrei messo un check verde sulla casella vicina a questa famiglia!
L’anno prossimo emigro: per adesso è la certezza più affermata. Pare in Canada, sulla costa pacifica. Ma potrebbe essere in Australia, dove pare abbia dei parenti lontani. C’è chi si domanda se davvero voglio partire, ma l’età del voglio il giocattolo/no non lo voglio più ne voglio un altro si è già esaurita. Ragiono, a volte lo faccio, poi valuto cosa mi lascio indietro e cosa potrebbe corrermi incontro e scelgo fra le uniche due opzioni che ho: tiro il freno a mano a quello che voglio essere, scendo e spingo la mia fantasia.
Questi sono giorni importanti: sono al terzo anno di ingegneria e devo decidere se chiudermi in un garage e sperare di inventare qualcosa, o se aumentare in modo drastico le probabilità di riuscita. In ogni cosa, riuscire in ogni cosa. Come quel mio prof che s’è fatto male ad una spalla, che ha ucciso un gatto quest’estate e che adesso va in Francia a fare cosa neanche lui lo saprà…
Veniamo al punto principale di questo post (e se volete una mia opinione di tuuuuutto ciò che è tangibile a questo mondo): i soldi.
I sogni costano soldi, col cazzo (su cazzo ci sta l’enfasi di uno che vuole dire una parolaccia per attirare l’attenzione) che sognare è gratuito. Sognare vuol dire avere un milione di lire per andare dall’altre parte del mondo, all’America probabilmente. Averne 8000$ per fare un corso d’inglese, più tutti gli spiccioletti che servono per comperarti acqua, tonno in scatola e cose di questo genere. Poi sognare vuol dire avere da qualche parte fra le tessere (quella del PAM esclusa ovviamente) altri 12000$ e rutti (o si dice e rut?o forse r00t?) per andare a Chicago, che per disgrazia pare che si trovi sempre dall’altra parte del mondo, al continente. Lì’ con un pò di coraggio, con due palle così e un pizzico di fortuna potrei ottenere un MASTER IN COMPUTER SCIENCE (in inglese fa figo eh?), e aprire l’orizzonte della mia riuscita. E’ il sogno all’italiana: emigrare in America, e fare proprio il sogno all’americana. Lo ha fatto lo zio della mia mamma, e lo zio del mio papà, o lo zio del nonno che sia. Cinquant’anni fa, senza un dollaro, senza la conoscenza della lingua inglese, senza scaip, senza globalizzazione. Lo fecero perchè avevano un obiettivo: migliorare la loro qualità di vita realizzando ciò che, rimanendo in Italia, non avrebbero potuto fare. Non posso neanche lontanamente pensare che io oggi non sia in grado di poterlo fare. I soldi sono pochi, c’è la crisi che avanza e stamu arristannu tutti a peri? C O L CAduezeta e una O. L’unica cosa che mi può fermare è mia madre o mio fratello che mi chiedono in lacrime di restare, lì con loro. Ma mia mamma mi ha già dato piena disponibilità (ora ci vulissi na bella American Express però, mà…), e mio fratello appena sarà pronto potrà ripercorrere i sentieri già tracciati (o può conoscere la paura e la gioia di essere libero).
Perciò signora, mio figlio sarà libero di emigrare se lo vorrà fare. Piangerò di nascosto, sarò raggiante con lui. Spero di non esserlo mai, un padre che piange davanti a suo figlio implorandolo di restare e poi essere raggiante di nascosto.
Oggi il tipo che presentava il master ha detto che non cerca gente che è ricca, nè gente che vuole andare lì per trombare (questa l’ho aggiunta io, ma guardando quel prof ben benino mancava poco che gli scappava). Ha chiesto di gente veramente intenzionata, che ha volontà ed è pronta al sacrificio. Io lo guardavo fisso dicendomi nella testa sono io quello che cerchi sono io quello che cerchi. A un certo punto mi ha guardato pure lui, minchia dico io, funziona sono io quello che cerchi sono io quello che cerchi, ho continuato a pensare.
Ora tornando a noi mà le cose sono chiarissime: posso fare il mafiosetto di provincia, posso andare per la strada di catania, ma Giulia dice che non me se vole nessuno. Oppure posso fare il panettiere, o il camionista. No il camionista no che poi mi vengono le emorroidi a stare sempre seduto. Ho trovato: voglio fare lo speleologo!

Il vento che soffia forte

Ho passato molto tempo a pensare. Poco a scrivere e molto a pensare. A cosa serve questo blog, a cosa è servito realmente, a tutto quanto di bello e buono c’è scritto qua dentro. Adesso ho in mente quel post sulla porta del paradiso, ma tanto non se lo ricorderà nessuno. Me, mi basta che sia io a ricordarlo.
Dopo ogni fallimento che si perda un pò di autostima ritengo sia una cosa piuttosto normale, e tutti i miei sforzi adesso sono concentrati a non farla calare sotto quella soglia che ritengo pericolosa. Poi se consideriamo che volevo essere l’uomo perfetto e la concreta consapevolezza che non lo sono affatto, tutto quello che ne è conseguito e che sta per accadere attimo per attimo, tutto ciò non m’aiuta neanche un pò.
Così mentre pensavo mi viene in mente un motivetto, una canzoncina. Provo a ricordare qualche parola, la cerco su google e riesco a trovarla. Mi sembra carino raccontare anche l’aneddoto che c’è dietro.
Ero piccolo, sui 5 anni scarsi, avevo iniziato da poco la primina. E non sapevo disegnare. Cavolo, adesso che ci penso è proprio una cosa buffa. Si, non sapevo designare e mio cugino Davide ci riusciva benissimo. Io non sapevo disegnare gli uomini, non sapevo disegnare le case. L’unica cosa che mi riusciva piuttosto bene erano gli alberi e le nuvole. Soprattutto gli alberi, ero bravo a fare gli alberi.
Però per un bambino saper disegnare solo gli alberi è un pò poco, così passavo triste intere giornate e spesso piangevo. Chissà cosa pensava di me mia madre in quei momenti: abusi da parti dei preti, maestre violente, nonnismo o forse bullismo. Affatto, io non sapevo disegnare le persone e le case, solo gli alberi; a lei dicevo che niente, non era successo niente. Ma in quei giorni non era così per me. E cominciai a dire per casa che io non sapevo fare niente, e avevo pure ragione: per me disegnare gli uomini e le case come sapeva farlo mio cugino era tutto! Ero assolutamente convinto che non sapevo far niente, non sapevo neanche disegnare. Ancora oggi disegno le persone esattamente come lo facevo allora, ma ora questo non è molto importante per me, perciò non mi dispero.
Se mai mio figlio dovesse incominciare a piangere dicendo che non sa fare niente io so cosa dovrò fare, quello che non so è come venne in mente a mia madre la soluzione alla mia disperazione.
Un giorno vidi un foglio proprio dietro la porta della mia stanza, la mia bellissima stanza. Lo aveva attaccato lei, lo capì subito e mi misi lì a leggerlo: era una canzone, forse una canzone scout. Non l’avevo mai sentita prima, eppure ne conoscevo tante di canzoni scout. Faceva così:

Rit. Dove troveremo tutto il pane
per sfamare tanta gente,
dove troveremo tutto il pane
se non abbiamo niente.
1. Io possiedo solo cinque pani,
io possiedo solo due pesci,
io possiedo un soldo soltanto…
io non possiedo niente. Rit.
2. Io so suonare la chitarra,
io so dipingere, fare poesie,
io so scrivere e penso molto…
io non so fare niente. Rit.
3. Io sono un tipo molto bello,
io sono intelligente,
io sono molto furbo…
io non sono niente.
Dio ci ha dato tutto il pane
per sfamare tanta gente,
Dio ci ha dato tutto il pane
anche se non abbiamo niente.

Qua ( Dove troveremo tutto il pane) potete pure ascoltarla, lo consiglio fortemente: io la ascolto da tre giorni un attimo prima di studiare, un attimo prima di essere triste, e un attimo prima di addormentarmi.

A me sta storia del Dio non mi convinceva tanto neanche allora, e di per sè tutto il testo non mi consolava tanto. Ma se me lo ricordo adesso dopo quindici lunghi e travagliati anni vuol dire che allora fu davvero una cosa importante.
Prima di tornare qui a Milano ho rivisto alcuni dei posti più significativi che mi legano alla mia terra. Non sono andato a vedere il muro questa volta, ma sono andato nella casa dov’era attaccata quella canzone. C’era una bici da bambina davanti alla porta, una automobile, l’albero di fico. Mancava qualcosa, le persiane sono state cambiate: ma quella resta la mia casa che riavrò indietro.
Adesso me lo ripeto da un pò: qualsiasi cosa io so fare, e qualcosa so fare, sarà quel che farò. Non m’interessa di non saper disegnare, non m’interessa più. Che quello mi sia di esempio per le difficoltà che tocca scalare oggi. Devo preoccuparmi di quello che so fare, e farlo sempre meglio. Sempre meglio.

Gli alberi, erano il mio disegno preferito. Stanno in tutti i miei disegni da piccolo. Ma mi venivano tutti con la chioma storta, sporgeva a sinistra. Per quanto mi sforzassi quest’albero era sempre piegato verso sinistra (solo adesso però posso dire che non era un bug, era una feature). E allora decisi che era giusto così, era giusto che ogni mio albero era spostato tutto a sinistra. Quando mi chiedevano perchè erano tutti storti io rispondevo: “Non vedi che c’è il vento che soffia forte?” 
Del resto per quale altra ragione quell’albero tende a sinistra ?

“Les grandes personnes ne comprennent jamais rien toutes seules, et c’est fatigant, pour les enfants, de toujours et toujours leur donner des explications.”
[Antoine de Saint-Exupéry,Il piccolo principe]

Istanti

 Se potessi vivere di nuovo la mia vita.
  Nella prossima cercherei di commettere più errori.
  Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più.
  Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
  di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
  Sarei meno igienico.

   Correrei più rischi,
   farei più viaggi,
   contemplerei più tramonti,
   salirei più montagne,
   nuoterei in più fiumi.

   Andrei in più luoghi dove mai sono stato,
   mangerei più gelati e meno fave,
   avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari.
   Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto
   della loro vita sensati e con profitto;
   certo che mi sono preso qualche momento di allegria.
   Ma se potessi tornare indietro, cercherei
   di avere soltanto momenti buoni.
   Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita,
   di momenti: non perdere l’adesso.
   Io ero uno di quelli che mai
   andavano da nessuna parte senza un termometro,
   una borsa dell’acqua calda,
   un ombrello e un paracadute;
   se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero.
   Se potessi tornare a vivere
   comincerei ad andare scalzo all’inizio
   della primavera
   e resterei scalzo fino alla fine dell’autunno.
    Farei più giri in calesse,
    guarderei più albe,
    e giocherei con più bambini,
    se mi trovassi di nuovo la vita davanti.
     Ma vedete, ho 85 anni
     e so che sto morendo.

FDC – 6

Un tempo scrivevo sul muro della mia stanza:

Resistere significa semplicemente tirare fuori i coglioni e meno sono le chance più dolce è la vittoria.
E poi effettettivamente la vittoria è arrivata ed è stata spettacolare, fantastica, la migliore della mia vita. La più dolce.
Adesso mi tocca riscriverlo, ricominciare la scalata. E allora questo si deve fare, tirare fuori i coglioni. Le palle, c’è un post sulle palle da qualche parte. Ah si, era l’inizio dell’estate: come vorrei tornare all’inizio di quel mese. Oggi ho mangiato i cavoli lessi, anche se non mi sono mai piaciuti. Ma se ci fosse stata qua la mamma so che m’avrebbe detto di mangiarli, che fanno bene. E siccome non posso approfittare del fatto che mamma sta lontano io ho chiesto alla signora della mensa i cavoli, che poi quella della mensa fanno ancora più schifo. Sale e aceto hanno camuffato il sapore, ma alla fine li ho lasciati: in fin dei conti faccio sempre un pò come mi pare. E adesso mi pare di alzarmi, prendere la bici e pedalare così veloce da tornare indietro. Nel tempo. Sono libero, di fare chissà cosa adesso non lo so più. Ho fatto la fine del figlio e dei cavoli: tocca tirare fuori le palle e farsi da mamma. E farsi forza da soli, che gli altri sono già troppo impegnati. A farsi forza da soli.