“Ho appena finito di dare sepoltura alle spoglie mortali di Bach, deceduto nel primo pomeriggio”
(Ho ascoltato queste canzoni mentre scrivevo, fatelo anche voi se potete).
Ultimamente è come se aspettassi sempre un messaggio, così scatto sull’attenti ogni volta che suona il cellulare. Spesso è la Tim, e a volte è pubblicità. Oggi è stato questo messaggio inviatomi da mio padre. Ovviamente non è piacevole ritrovarsi a leggere tale notizia sperando che sia una persona x, credendo più realisticamente che sia la tim e ritrovandoti invece a leggere ciò. Faccio qualche passo indietro nel tempo.
Quand’ero piccolo, cinque sei anni non di più, tornavo ogni giorno a casa sognando di trovare una sorpresa: o
una scrivania nuova, o un cagnolino. Abitavamo in campagna, la nostra casa poteva con un po’ di immaginazione sembrare un villino, c’era un orto dietro e una specie di giardino davanti casa. Un cane non era un sogno illegittimo, ma non so perché, non ne ho mai avuto uno. O meglio, ne avevamo, ma nella casa dei nonni, casa che in realtà era una fattoria dove i cani erano gli animali più “umani” del posto. Ma in casa nostra non c’erano cani: per questo un giorno comprerò quel villino, diventerà una villa anche senza la mia fervida immaginazione e comprerò a mio figlio un cane. Anche se è allergico!
Un giorno tornai da scuola, mi riaccompagnava a casa il padre di una mia amica. Tornai e mamma o papà mi dissero di andare fuori, che c’era una sorpresa. Poteva essere o un cane o una scrivania, nient’altro. Essere dei bambini è la cosa più grandiosa della nostra vita. Erano due cani. Piccoli, tremanti, impauriti.
La loro è una storia misteriosa, e io non so perché, ma non c’ho mai creduto fino in fondo. Dice che siano stati trovati nell’immondizia, dice che erano due fratelli e che siano stati salvati col mio sciroppo scaduto: il panacef.
Uno era nero, l’altro marroncino. Erano due bastardi, ma io non ho mai avuto cani di razza. Ed è per questo che ho sempre apprezzato la bontà degli animali, non la loro discendenza nobile. In fondo con le persone è lo stesso, o quasi almeno. Il nero si chiamò Bach, come il musicista. Il marroncino invece prese il nome di Brown, per via del suo colore. Bach&Brown. Bach era il più serio, Brown era il giocherellone. La favola durò poco, dopo qualche settimana andarono in campagna dalla casa dei nonni. Ma ero felice lo stesso. I bimbi sono sempre felici, lo stesso. I cani crescevano, io crescevo e tutto sembrava una storia di quelle che mi leggevano la sera.
Erano uno geloso dell’altro e questo faceva sì che o si giocava con loro allo stesso momento o toccava ignorarli per non scatenare le loro gelosie. Un giorno il nonno picchio Brown, ma la colpa era di Bach. Io piansi, non era stato giusto. Ma ero io a piangere e Brown dopo qualche ora era tornato a girare intorno alle mucche ‘nto baddgiu. C’è chi non ama cani, e io stesso non ne pretendo uno a tutti i costi. Ma ci sono alcune cose che potrebbero spiegarci se solo ci fidassimo di loro.Dopo qualche anno Brown morì. Fu avvelenato, così mi dissero. Mangiò una polpetta di quelle che si preparano per le volpi. Ricordo ch’ero triste, ma non dispiaciuto come lo sono adesso. E sono dieci anni più grande, e vivo a Milano e invece di scrivere a quest’ora della notte dovrei essere già a dormire che domani è giorno di studio.
Sapere che vicino i campi era pieno di polpette avvelenate mi rendeva sicuro che Bach era veramente un cane intelligente, che Brown poveretto non aveva seguito il consiglio del suo fratello maggiore.
Un giorno vidi persino Bach abbaiare dietro una mucca che stava allontanandosi troppo, Bach è sempre stato un cane libero. Sciolto. Non correva mai dietro le galline, non abbaiava ai gatti se non quando i suoi obblighi da cagno non glielo obbligasse strettamente.
E’ sempre stato pulcioso per via del suo pelo folto e non curato. Lui è un cane libero, nessuna spazzola né medicinale contro le zecche. Era uno di quei cani che si grattavano con la zampa, ed è come se niente fosse.
Spesso si faceva trovare con qualcosa in bocca che posava ai nostri piedi quando arrivavamo, dice che fosse un segno di riconoscenza. Non importa se era un pezzo di legno, o un pezzo di sterco di vacca indurito. L’ho sempre accettato prendendolo dalla sua bocca, lui è sempre stato la mia sorpresa di quando avevo sei anni.
Adesso in questa notte in cui sono appena scoppiato a piangere da solo mi accorgo che certe cose non assumano la loro reale importanza fintanto che restano con noi. E’ un destino strano, ma si piange sempre per le cose che non potranno più tornare indietro. Quando scendono le lacrime è già troppo tardi. Ricordo l’ultima volta che l’ho visto come ricordo te quel giorno in aeroporto. Lui era diventato sordo per via della vecchiaia, tu mi salutavi da lontano agitando la mano e scomparendo dietro il gate8: in entrambi i casi niente sarà come prima, sono obbligato a crescere ancora, non ti vedrò più con quegli occhi innocenti di quand’eri qua. I tuoi occhi, i tuoi occhi marrone chiaro. Chi altri mai li ha guardati così da vicino, così pieni di amore?
Da qualche mese c’è un nuovo cane in campagna, che prenderà il suo posto nella fattoria. Anche di lui eri geloso, Bach, lui che aveva appena qualche giorno di vita. Riuscivi appena a reggerti in piedi, ti spostavi solo per mangiare. Ma venivi accanto a noi quando giocavamo col piccolo Tex. Adesso le lacrime sono arrivate al naso e ho il sospetto che non piango solo per te. Voglio che tutto torni come prima e tutto come prima non può tornare. E per questo piango, perché non posso far altro che ricordare.
Sei morto che avevi quasi sedici anni, o forse quindici. E’ tantissimo per il tuo essere cane. E’ bellissimo immaginare che tu sei sempre rimasto il solito cane, e io ch’ero un bambino innocente sono diventato prima un adolescente e ora quasi un uomo. E tu hai sempre fatto le solite cose, vissuto sempre gli stessi luoghi. Chissà se i tuoi occhi mi hanno visto crescere, cambiare. Chissà se hai visto i miei momenti di sconforto e li hai distinti dai momenti di allegria. Quest’estate nei campi venivi spesso. Io ero triste, passavo i giorni più difficili dell’ultimo anno e tu eri semplicemente lì. Ti rigiravi intorno due tre volte e poi ti sedevi. Chissà se i cani soffrono le pene d’amore, se piangono quando muoiono i loro simili, chissà se vogliono essere cremati o sepolti. Chissà.
Pensiamo di essere noi a decidere per loro, pensiamo tante cose riguardo i cani.
L’ultimo ricordo che ho di te è disteso lungo la strada che conduce fuori dalla campagna. Non avevi sentito la macchina, Matti mi ha ricordato che non sentivi e ho rallentato. Mi sono quasi fermato, ti ho guardato e finalmente m’hai visto. Volevi che sapessi che stessi andando via, non dovevi cercarmi mentre io non c’ero più. Ogni volta che andavo via da campagna, negli ultimi tempi, sapevo che poteva essere l’ultima volta. Ma non avrei mai immaginato che io, Lele, che crede poco in dio, che erano mesi che non frignavo, che non vedo l’ora di lasciare l’Italia, io non mi sarei mai immaginato che adesso avrei pianto -nuovamente- per te, Bach.
Non ti scorderò, non scorderò quel giorno in cui ti conobbi la prima volta. Quant’ero felice quel giorno e quanto sarò felice fantasticando su come potrai conoscere queste mie parole per te. Fra un paio di settimane tornerò a casa e verrò da te e ti porterò io un legnetto, se me lo permetti. Grazie Bach, grazie di avermi fatto uscire queste lacrime che ora si sono fermate. Era tanto che erano chiuse qua dentro, ancora una volta sei stato una sorpresa per me. Abbaiare e mordere. E per le pulci basta una grattata, che non c’è niente che possa farci dimenticare quanto sia meravigliosa la nostra stupenda vita da cani.
Al mio Bach, Lele.
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Dall’altra parte della strada sbatté la porta di un negozio vivamente illuminato, e ne uscì un cittadino: “Beh, si: si tratta proprio di un cittadino, non certo di un compagno; anzi, questo qui è addirittura un signore. E non che giudichi dal cappotto -non sono così sciocco-. Oggi il cappotto ce l’hanno anche i proletari, o molti di loro. […] Ma gli occhi: lì non si sbaglia, sia che li guardi da vicino che da lontano. Eh, sì, sono assai importanti gli occhi, sono una specie di barometro. Ci vedi quello dal cuore duro, che può schiaffarti la punta dello stivale nelle costole, senza nessun motivo; e ci vedi quello che ha paura di tutto e di tutti. Ecco, proprio un lacchè come questo tipo qui mi divertirebbe prendere a morsi nelle caviglie – Hai fifa, eh? Se ce l’hai vuol dire che te la meriti… Tiè… grr… rrr… bau, bau!-“
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(Michail Afanas’evič Bulgakov, Cuore di cane, Capitolo I)