Oggi ho avuto un colloquio di lavoro. Scriverò qua ciò che ricordo della giornata, un po’ per il vostro diletto un po’ perché sarà importante leggermi quando le cose saranno diverse. Adesso sto ascoltando gli AfterHours, sto per prendere una birra in frigo e non ne escludo una seconda per il definitivo ma voluto Knock-Out (la birra è una Peroni, anche se sono in Canada io bevo italiano).
Come potete vedere nella foto mi sono vestito elegante. La saturazione non permette di vedere i colori e il colletto del maglione mal sistemato non permette di vedere la cravatta. Dettagli comunque non importanti nello sviluppo degli eventi. Fatemi solo aggiungere che più la guarda più la amo: la cicatrice imperfetta ma vera che ho sulla fronte. Mi sono tagliato i capelli, mi sono persino rasato la barba e ho indossato quella che ritengo la miglior camicia che ho: la camicia della laurea. Per via della scaramanzia sotto la camicia avevo la maglietta del “Sarebbe bello”. Se non sapete di cosa sto parlando vaffanculo e continuate a leggere (ve l’avevo detto che sto bevendo birra). Ho ripassato le domande più comuni in un colloquio di lavoro, sono arrivato con mezz’ora di anticipo. Ho parcheggiato e poi aspettato un quarto d’ora in macchina. Quando aspetto mi scappa di fare la pipì, come quando giocavo a nascondino e toccava nascondersi e stare zitti. Come quando devo andare a mangiare con una che mi piace e mi viene da vomitare. Interessante questi messaggi che mi manda il cervello. Quindici minuti dell’ora stabilita entro nel locale, molto bello e creativo
Subito ho capito che la giornata non sarebbe stata delle migliori. E non perché stamattina Victoria ha (in ordine) avuto il sole, ha nevicato, grandinato e nuvoloni sparsi (e questa non è una delle mie esagerazioni, tutto vero sto giro). Il fatto era che all’ingresso ci stava un foglio su uno sgabello su cui era scritto firma qua se vorrai avere un colloquio. Confusione, perché non sono l’unico ma bensì il #9, ma che sta succedendo…
Il fatto che solo oggi siano stati intervistati almeno 15 canadesi non mi rende, povero italiano che ha il vizio di mangiarsi le parole anche in inglese, sbagliare l’accento delle parole con l’acca e non conoscere gli aggettivi scoglionati che lì usano nei menù, proprio in pole position. Ho gestito le emozioni e ho sorriso a un paio di bone ch’erano in fila. Una aveva un profumo che i miei ormoni hanno ritenuto interessante.
Quando è arrivato il mio turno mi sono alzato, ho ripetuto quattro volte il mio nome per poi arrendermi e dire che mi si può anche chiamare Joe (che Giò lo leggono G i o) e mi sono seduto in fronte a tre persone, due donne (una bellissima) e un uomo col ciuffo all’emo-Hitler.
Inizia a parlare uno dei tre, la capa chiaramente. Spiega che il ristorante è a conduzione familiare, che l’ambiente è molto creativo e perciò cercano gente particolare (ho scordato di dirvi che mentre mi stavo sedendo la capa ha commentato suggerendo che assomigliavo a uno di un (imprecisato) reality). Subito la prima domanda, anomala: cosa mi rende creativo? A prima domanda anomala rispondo con prima bugia innocua: in Italia sono un fotografo, amo l’oceano di Victoria e spendo ogni fine settimana a fotografarlo. Ognuno dei miei parenti ha una mia foto nella loro casa. Ritengo questa risposta adeguata alle loro aspettative e alquanto soddisfacente. La leader continua a spiegare che non si lavora in tanti, il massimo è intorno alle 3-4 persone e tutti spartiscono le mance in modo equo. Mi è sembrato molto giusto, considerando che avevo già realizzato che non sarei stato assunto per quella posizione per cui mi stavano intervistando, e che quindi il prossimo potenziale lavoro è per una posizione di lavapiatti (non così famoso per prendere mance).
La successiva domanda rientrava fra le più comuni: “Qui dovrai spiegare il menù ai clienti, il nostro menù è scoglionato quindi ti chiederanno un botto di cose e la musica sarà abbastanza rumorosa. Dovrai urlare più forte della musica, ti senti a tuo agio nel far questo?”. A questa domanda ho percepito il primo segnale che l’essere italiano sarebbe stato un difetto questa volta. Ho deciso di non girarci intorno e ho citato il mio già chiaro accento italiano: potrebbe essere diverso da ciò a cui i clienti sono abituati ma non essendo timido bensì estroverso non sarà un problema. L’ostacolo l’ho toccato, ma l’ostacolo era stato superato. Un altro paio di domande pressoché inutili (cazzo chiedi a fare ad un italiano qual’è il suo cibo preferito), ho posto io un paio di domande (se le ore di lavoro sono fisse o se variano di giorno in giorno) fin quando è stata data la parola allo chef che ha fatto una domanda intelligente ma devastante per mio punto di vista: “Se sei uno studente hai un permesso di lavoro, quand’è che scade?”. Qua non si può mentire.
Fin quando s’arriva alla domanda interessante: se tu fossi un albero, che tipo di albero saresti?
Io in un secondo scarso ho pensato: ommioddio non so un cazzo di nome di albero in inglese – Mò dico il primo che mi viene in testa – Carrubbo – Cazzo ne so come si dice carrubbo in inglese, e poi loro manco lo sanno che è – Oddio sono morto – Minchia, cimitero – Pino – Pine. Dovete sapere che ho sempre confuso i cipressi con i pini. E quando m’hanno chiesto il perché della mia risposta, sono venuto fuori con una risposta degna dell’assunzione immediata: perché il pino non si trova dovunque, perché il pino è alto, è come una statua, non importa chi sei lui è più alto di te, il pino è una specie di albero…di albero speciale.
E così finì il colloquio, strette di mani e nice to meet you.
Se mi assumente vuol dire che davvero il pino che sono è speciale, se non mi assumente che il bello alto pino vi si conficchi dietro nel culo fintanto che non capite chi vi siete persi: un italiano a cui piace la pasta e assomiglia ad uno di un reality!