Il mio amico Paolo

Sono incazzato quanto un tricheco a cui hanno rubato i calzini profumati. Sono molto incazzato. Ho passeggiato per la residenza e la cosa non mi è passata, sono andato nella stanza in cui ruppi l’orologio, sono andato nelle segrete di questo posto. Ho bevuto un bicchiere di vino da 1,5€ e sto debuggando qualcosa che continua a non funzionare. E sono incazzato quanto un juke-box muto.
Prima mi ha contattato un ragazzo su Facebook, m’aveva aggiunto quest’oggi. Il suo nome è Paolo, abbiamo frequentato insieme le elementari. Ha i genitori divorziati e da piccolo faceva leva su questo fatto.
Sono una persona di merda, ho una morale scarsa e spesso, anche se riesco a camuffarlo per bene, sono un uomo disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole. Per tutto intendo ogni cosa, non una frase fatta.
Alcuni miei pensieri spesso accendano molte discussioni, uno più di tutti: i soldi. E il valore che gli assegno.
Premessa, i soldi causano dipendenza, sono belli e profumati. Ma alla lunga fottono il cervello e causano problemi. Chi ha i soldi ha più problemi di chi ne ha pochi. Chi non ne ha abbastanza è già morto, i suoi problemi sono ormai in un’altra vita.
Paolo, quello di facebook, è sempre stato ricchissimo. E tutte le ragazzine alle elementari pendevano dalle sue labbra, persino la mia prima fidanzata (era stato una cosa di un giorno soltanto, ma era la mia prima storia seria!). Quello di facebook, Paolo appunto, oggi mi contatta. Dice che lavora per il sindaco e che l’anno prossimo si scriverà a medicina omeopatica. Giuro che non l’ho fatto apposta: io mi sto per laureare in ing.Informatica a Milano. Lui lavora per il sindaco e forse passerà i test per un corso di Omeopatia, che a scriverlo con la o maiuscola sembra uno spreco.
Paolo è stato quel ragazzo che mi ha pagato i panini che mangiavo durante la ricreazione per tutti gli ultimi tre anni delle elementari. Lui era ricco e io no. Così rubavo i doppioni delle schede telefoniche a mio cugino più grande, le portavo a scuola e le vendevo a mille lire a lui, a Paolo. Con quelle con tiratura limitata riuscivo a tirare su anche duemilalire, quella banconota giallognola ormai estinta. E con quel millelire il giorno dopo mi comperavo un panino con la crema al cioccolato. Non con la nutella, quello costava milleecinquecento lire. E a me Paolo le schede telefoniche me le pagava solo mille. I miei ricordo che mi davano qualcosa per il panino. Non era moltissimo ma io li nascondevo da parte perché avevo un sogno. Volevo comprare la prima playstation, quella che aveva un vicino di casa. Costava duecento mila lire e conoscevo a memoria la brochure della sony, con tutti i joystick e i videogiochi. Babbo Natale non voleva saperne di portarne una e allora pensavo ingenuamente che potessi risparmiare per comprarne una da me, con i miei soldi. Conservavo tutti i cento lire che mamma mi dava dopo averli estratti dal carrello della spesa, conservavo anche i cinquanta lire quelli piccolini, che avevo già capito che è dalla merda che nascono i fiori.
Ricordo che alla fine riuscì a mettere da lato un poco più di duecentomila lire, sicuramente rimpinguati da qualche regalo di compleanno.
Una sera ebbi l’idea di dire a babbo che volevo comprare la playstation. Avrei messo io i soldi, soldi che conservavo in un salvadanaio di latta riposto nel bianco armadio centrale della mia stanza. Un bimbo vede le cose semplici, non pensavo potessero esserci troppi problemi dato che i soldi erano i miei.
Ma non fu così.
Qualche tempo dopo mio padre mi chiese se potessi prestare quei soldi alla famiglia intera. Non so bene a cosa sarebbero serviti, molto probabilmente a comprare del cibo per mangiare un giorno in più. Un bimbo è facile da convincere, prestai i miei soldi alla famiglia.
Anni dopo, ormai da adolescente, mia madre mi ha restituito metà della somma. L’altra metà non l’ho ancora ricevuta.
Io mangiavo i panini con la crema al cioccolato, io rubavo le schede telefoniche a mio cugino, io conservavo anche i soldi più piccolini, io ho prestato tutti i miei soldi ai miei genitori a sette anni.
E adesso studio per i soldi, e adesso mi dispero perché il lavoro che avevo trovato ad Agosto forse non me lo danno più dato che cercano un tipo anche per luglio, e io in quel mese sarò ancora a sgobbare sui libri. Io che l’estate scorsa ho sputato il sangue in un campo per raccogliere duecento quintali di carrubbe, io che le ultime parole che ho rivolto alla mia fidanzata sono state delle urla convulse che spiegavano che non so a chi appartengono originariamente i miei pinocchietto preferiti, io che i soldi sono fondamentali. Io che i soldi m’han fatto diventare questo, questo che adesso cerca di capire che in realtà duecentomila lire sono una schifezza, che c’è gente che muore di malaria e scabbia.
Ma oggi sono incazzato e ricordare la merda da cui esco mi fa incazzare ancora di più. E questo potrebbe essere molto bello se riuscissi a produrre cose buone di questa rabbia. Che se adesso la vendessi al chilo allora sì che sarei un uomo pieno di soldi, chissà se anche ricco…

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